In queste ultime settimane si sono susseguiti, molto ravvicinati, svariati esempi di quella che si potrebbe definire – e tra poco vedremo perché – la violenza di Internet. L’episodio più emblematico di ciò che Internet e in particolare i social network, questi strumenti potenti e terribili, possono fare risale a ieri. È ormai nota la vicenda di Tiziana Cantone, che non ha retto all’umiliazione di vedere il video delle proprie prestazioni sessuali circolare senza controllo su Internet e si è tolta la vita. Non è finita, come c’era da aspettarsi: c’è ancora chi, nonostante tutto, si accanisce su questa ragazza perché in fondo «se l’è andata a cercare». Altri cercano un colpevole contro cui rivolgere la propria rabbia, senza capire che probabilmente basterebbe guardarsi allo specchio per trovarlo. I giornali già scrivono che «è stato il web ad uccidere Tiziana»; e così le responsabilità verranno annullate nel «tutti colpevoli, nessun colpevole» e la storia verrà dimenticata.
Questa vicenda, per quanto dolorosa, può essere però l’occasione di riflettere davvero sulle responsabilità che l’utilizzo di Internet comporta. È l’occasione per rileggere un articolo di Nicola Lagioia pubblicato il 16 gennaio scorso su Internazionale. Partendo da alcuni esempi, alcuni di cronaca, altri provenienti dalla propria personale esperienza, lo scrittore analizza il fenomeno che definisce «la violenza in rete», che non è quella dei terroristi ma quella, forse più pericolosa, delle persone normali.
I primi due esempi citati da Lagioia sono abbastanza noti: il primo riguarda Justine Sacco, responsabile della comunicazione di una grande azienda, colpevole di aver scritto un tweet razzista con il quale si è attirata insulti di una violenza che, come afferma lo scrittore, rischiava «di far passare per moderati i vecchi boeri favorevoli all’apartheid»; il secondo vede come protagonista lo scrittore Aldo Nove, che proponeva una riflessione – forse un po’ grossolana e contestabile, ma in ben altri toni – su chi si suicida a causa di fallimenti economici. In entrambi i casi è subito scattata quella che viene ormai definita la “gogna mediatica”. Justine Sacco è stata licenziata e ha visto la sua reputazione rovinata; Aldo Nove se l’è passata un po’ meglio, ma è stato costretto a raccontare le proprie vicende personali per cercare di zittire chi lo definiva un arricchito menefreghista.
Riprendendo le considerazioni del giornalista britannico Jon Ronson, autore del saggio I giustizieri della rete. La pubblica umiliazione ai tempi di internet, Lagioia sottolinea che la gravità di questa situazione sta nel fatto che i commenti più violenti non provengono da un ipotetico farabutto, magari ladro e pure drogato, ma da persone che non esiteremmo a definire “normali”.
«Il problema […] è che in questi casi il troll assetato di sangue non veste i panni del nazista ma del bravo democratico in lotta per una giusta causa. Non è un disoccupato che la notte esce di casa alla ricerca di immigrati da incendiare, ma una tranquilla professoressa di liceo che si reca ogni mattina a scuola. Non ha il poster di Anders Breivik nella cameretta ma sfoggia un primo piano di Martin Luther King come immagine del suo profilo Facebook».
Ma come è possibile, si chiede lo scrittore, che così tante persone siano disposte a rinunciare alla naturale empatia che in genere si prova verso gli altri esseri umani? Perché c’è questo desiderio di lapidare telematicamente chiunque commetta un minimo errore, quasi godendo quando si scopre un’altra vittima delle nostre pietre virtuali?
Per spiegare questa circostanza, Lagioia utilizza due interessanti paragoni. Si inizia con l’intramontabile personaggio di Stevenson, il Mr Hide che si nasconde dietro il dottor Jackyll. Anche i cosiddetti “leoni da tastiera” sembrano essere dotati di una doppia personalità, a causa della quale manifestano sul web comportamenti che mai nella vita vera si sognerebbero di adottare.
Come leoni affamati, i Mr Hide 2.0 si aggirano per la rete, in cerca di una nuova vittima contro cui scatenare la propria violenza telematica. I “sintomi” sono sempre gli stessi: un attacco giustificato da una presunta difesa della democrazia, della libertà o di qualche altro grande valore; eccitazione nel vedersi supportato da altri utenti; e, cosa più grave in assoluto, la tendenza a dimenticarsi che dall’altra parte dello schermo c’è una persona reale.
«Il mister Hyde 2.0 non crede che dall’altra parte dello schermo ci sia un altro essere umano. La cosa, semplicemente, non gli sembra verosimile. E così trasforma e tratta il “colpevole” senza il quale non esisterebbe come una “non persona”».
Ma Lagioia tiene anche a sottolineare quanto sia facile innescare questo meccanismo, a volte anche involontariamente. Per questo utilizza un esempio che lo riguarda in prima persona. Un’associazione culturale lo aveva invitato a presentare il suo libro in occasione di un festival, commettendo però una notevole gaffe: al posto del titolo giusto, ne aveva riportato uno di Corrado Augias. Lagioia aveva pubblicato la richiesta sul suo profilo Facebook, pensando ingenuamente di far sorridere i propri lettori. Ha dovuto assistere, invece, allo spettacolo di persone che si scagliavano senza pietà contro gli autori dell’errore, tanto che alla fine si è sentito in dovere di rimuovere il post e porgere le proprie scuse all’associazione.
Quale meccanismo può aver dato vita a tutto questo? Facendo un esame di coscienza, Lagioia identifica l’origine di tutto nel risentimento. Quello dell’autore, che si è visto confondere con un altro scrittore dopo aver duramente lavorato al suo romanzo; e quello del “popolo del web”, che sembra non aspettare altro che un’occasione per scaricare su sconosciuti senza volto tutte le proprie frustrazioni.
«La gente, intorno a me, sembrava attendere solo un’autorizzazione, un motivo, per quanto futile, per gettare merda su qualcuno che, fino a un attimo prima, era un perfetto sconosciuto».
Il web, dunque, è diventato quello che nell’antica Roma erano gli spettacoli gladiatori: un palcoscenico dove perfetti sconosciuti vengono fatti a pezzi, dove per un momento godiamo nell’attaccare qualcuno che non si può difendere, forti dell’appoggio di altri come noi. Addirittura siamo noi i combattenti nell’arena e la nostra crudeltà viene alimentata dagli applausi, dal consenso, dal sangue (metaforico) di chi di fronte al nostro attacco ha dovuto soccombere. La violenza in rete, dunque, è uno spettacolo. E come ogni spettacolo, sottolinea Lagioia, c’è chi ci guadagna. Sono quelli che lui chiama i signori di internet.
Ma al di là dei discorsi di natura economica, è sempre più evidente che il web è uno strumento potente, più di quanto forse si sarebbe mai potuto immaginare. È forse ora, quindi, di iniziare a ripensare le regole di questa nuova società virtuale, così come nel corso del Novecento sono state messe in discussione le regole che costituivano la vecchia società reale. E soprattutto è ora di chiedersi:
«Quali mondi non stiamo esplorando e quali possibilità ci stiamo precludendo comportandoci come i pazzi sanguinari che non aspiriamo a essere? Che cosa, in fin dei conti, stiamo perdendo nel non usare la rete per evolverci?»