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Il neofascismo e la nascita del Movimento Sociale Italiano

Nel 1947, l'Italia repubblicana si rialza dalle ceneri della guerra, ma proprio in quell'anno di speranza e libertà, nasce un partito che riaccende ombre oscure: il Movimento Sociale Italiano. Qual è la sua storia?

6 minuti di lettura

Ci troviamo nel 1947: l’Italia è già un Repubblica democratica fondata sul lavoro. La guerra è finita, Mussolini è morto, Hitler è morto, il fascismo è costituzionalmente illegale e il ricordo delle bombe, le corse nei sotterranei al rumore dell’allarme, gli eccidi di massa, le rappresaglie, le fucilazioni, tutto un ricordo da raccontare. Calvino dirà, nella famosa introduzione del ’63 ai Sentieri dei nidi di ragno, che quella era un’epoca in cui si aveva voglia di raccontare ciò che si era visto durante la guerra. Lo si faceva ovunque, anche nei luoghi in cui si è abituati a non parlare, a fare silenzio, come i non luoghi augeiani: le stazioni, gli scompartimenti dei treni, le autostrade, le metropoli a volte. Ci si appropriava dei luoghi e li si riempiva di significato attraverso un oceano di significanti che volevano pregnanza, volevano pesare semanticamente sul presente, perché il passato non si ripresentasse più; è da questa esperienza comune che nasce il neorealismo, ad esempio. Per citare, un po’ a memoria, Furio Jesi: ci si appropria della città nel momento della rivolta perché è lì che non ci si sente soli. E nel ’47 la rivolta c’era stata da poco, e la Repubblica, la libertà e la democrazia avevano trionfato. Eppure, ironia della sorte, il 1947 è l’anno in cui nasce un partito che si chiama Movimento Sociale Italiano.

I compagni, dopo la guerra, le armi non le restituiscono, le tengono in cantina. Lì devono stare fucili, rivoltelle, bombe. Perché democrazia, costituzione, Repubblica, erano concetti che valevano poco a tre anni di distanza dalle fucilazioni in Piazzale Loreto, quelle che ci racconta Vittorini in Uomini e No. E il traditore, lo sporco fascista è ancora per la strada, talvolta è seduto nello stesso edificio, prefettura, commissariato, dove si trovava nel ventennio. Solo che ora cambiava funzione, e tutto continuava come se il prima non ci fosse stato. L’Italia è un Paese che non ha fatto i conti con la sua storia, se l’è semplicemente dimenticata, si è dimenticata delle leggi razziali, dei treni che partivano, della dittatura, e dell’alleanza con Hitler. E di questo i partigiani erano molto consapevoli nel ’47.

Dunque, l’Italia nel ’47 era piena di fascisti delusi. A nord c’erano quelli che avevano partecipato alla Repubblica di Salò, nata dopo l’armistizio dell’8 settembre ’43, a sud invece c’erano i fascisti quelli che non avevano accettato l’arrivo degli americani, e silenziosamente supplici si gettavano davanti a piccoli Lari domestici con busti del Duce pregando l’impossibile rimonta. A nord ce n’era uno, uno di quelli puri, che nell’ideologia ci credeva veramente: Giorgio Almirante. Almirante, quello che aveva firmato il manifesto della razza nel ’38, che credeva nell’inferiorità di ebrei, zingari, omosessuali, neri e così via. Quello che era stato ministro della nave che stava affondando, della Repubblica Sociale Italiana, e che lo racconta con toni nostalgici e trionfalistici in Autobiografia di un fucilatore. Ecco, Giorgio Almirante è fondatore e più grande esponente del Movimento Sociale Italiano. Ma torniamo indietro, benché in realtà alla seguente domanda si è già risposto abbastanza e ci si potrebbe pure fermare qua: che cos’è il Movimento Sociale Italiano?

Il Movimento Sociale Italiano è un partito che nasce nel 1947, nel contesto di una già formata Repubblica democratica Italiana, ed è ossimoricamente un partito espressamente fascista. O meglio, fascista, fondato da esponenti della vecchia Rsi, e del PNF, ma non fascista fascista come quegli di prima. Insomma, un fascismo più ideologico ma non formalmente fascista perché dentro un sistema repubblicano. Si raccoglievano idealmente i tasselli della “rivoluzione fascista” tradita dai gerarchi del Pnf, dai moderati, e tutti quelli che hanno consegnato in mano ai clericali e ai capitalisti l’Italia durante l’armistizio. Insomma dei fascisti con crisi d’identità freudiane: complessi edipici verso la madre duce, odio verso il padre, la realtà storica. Discorso non molto dissimile sarebbe da fare con chi deriva da questa parte politica, e oggi si trova a ricoprire i ruoli più importanti del nostro sistema repubblicano. Discorso che non faremo, lasciando ermeticamente, in queste poche righe, il compito al lettore di tracciare linee di collegamento tra il presente e il passato, dando un’utilità alla storia. Ma tornando a noi, con questo dativo tanto caro ai fascisti: in cosa credeva l’MSI? Nello specchietto politico, l’MSI occupava la parte che si trova a estrema destra. La sua visione dunque, ideologicamente apertamente fascista, ma senza velleità di restaurazione della dittatura, si concretizzava in una visione anti-capitalistica, o almeno contraria al libero mercato, anti-globalista, e per certi aspetti corporativista. Inoltre, sotto l’aspetto più identitario, il Movimento Sociale Italiano si poneva come partito conservatore dei costumi italiani, delle tradizioni e della patria: Dio, patria e famiglia, insomma.

Tutti sanno che la costituzione repubblicana ripudia il fascismo, e vieta una qualsivoglia ricomparsa o restaurazione del vecchio PNF, in qualsiasi forma o colore. Questo è un dato assodato, incontrovertibile e alquanto logico per una costituzione storicamente anti-fascista perché nata per preservare l’Italia da un ritorno al passato e dunque un ritorno all’autoritarismo. Inoltre, al di là della logica, c’è la disposizione 12 che recita: «È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista».

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Allora, la domanda sorge spontanea: come è possibile che il Movimento Sociale Italiano sia resistito fino al 1995, anno della svolta di Fiuggi, quando l’MSI divenne Alleanza Nazionale, con a capo il delfino di Almirante, Gianfranco Fini? La risposta è semplice e contorta, come in tutti quei casi in cui si viene meno alla logica della non contraddizione aristotelica. Malgrado le forti pressioni della sinistra, malgrado le proteste antifasciste in tutta Italia, al momento in cui il Movimento si presentò per la prima volta alle elezioni, la Democrazia Cristiana di Alcide De Gasperi preferì rifiutare l’applicazione della disposizione 12.

La ragione è una ragione di ordine. Il 22 settembre del 1947 nasce in Polonia il Cominform, un’organizzazione che raggruppava nove partiti comunisti di nove paesi diversi, tra cui il Partito Comunista Italiano. A differenza di altri gruppi come il Comintern, il Cominform poneva delle linee guida per contrastare l’egemonia americana nei paesi “capitalisti”, con un certo antagonismo verso il Piano Marshall e i partiti socialdemocratici che lo sostenevano. Dunque la direttrice è particolarmente radicale, e per certi versi interpretabile come anti-democratica. La richiesta degli americani a De Gasperi di applicare lo scioglimento anche al Partito Comunista non si fece aspettare troppo. E come si diceva prima, tanti erano i comunisti partigiani con ancora la rivoltella in cantina, pronti a far scoppiare la guerra civile. In questo senso, uno scioglimento del partito di estrema destra MSI per incompatibilità con il sistema democratico avrebbe anche voluto dire sciogliere, per ovvie ragioni, il PCI. E questa è la spiegazione da manuale.

Ma c’è un altro aspetto, forse spesso poco sottolineato, ma che ebbe una forte valenza in quella scelta di De Gasperi: l’equilibrio politico che si era andato a stabilire già agli albori della Repubblica e che favoriva in ogni modo la posizione democristiana. In un mondo dove la polarizzazione dello scontro politico viveva nella dicotomia “sinistra-destra”, “proletariato-padroni”, la chiave del gioco era rimanere nel centro, in un Paese essenzialmente prostrato da anni di guerra, dunque avverso agli estremismi, e divenire espressamente confessionale, in un Paese fortemente cattolico. Eliminare il MSI avrebbe voluto dire che la frangia di destra della Democrazia Cristiana avrebbe preso il sopravvento (come più volte ha fatto in realtà, si pensi ad Andreotti, ma sempre sotto mentite spoglie) e il partito avrebbe assunto la posizione a destra. Ciò avrebbe favorito l’individualizzazione della Democrazia Cristiana come partito di destra, dei borghesi, in opposizione al proletariato. E di conseguenza si sarebbe andato a perdere il voto del proletariato cattolico e moderato, che avrebbe preferito o il PCI, o forme di socialdemocrazia come il PSI nenniano. Eventualità che avrebbe sicuramente portato negli anni ad un forte Fronte Popolare, e dunque all’egemonia della sinistra: fatto che avrebbe rovinato i rapporti con gli USA, e sarebbe potuto sfociare in catastrofe.

Ma atteniamoci alla storia, e lasciamo la fantapolitica e la fantastoria, a chi fa questo di lavoro. A noi basti questo: nel maggio del 1948 la DC di De Gasperi prende il 48,5 %, percentuale che avrebbe potuto assicurargli un Governo monocolore. De Gasperi sceglie comunque una coalizione, dove mette insieme: DC, Partito repubblicano italiano, che aveva il consenso della borghesia colta e progressista, il Partito liberale italiano, che aveva il consenso di imprenditori e proprietari terrieri, e il Partito socialista democratico italiano, costola moderata del PSI, che aveva il consenso dei ceti medio-piccoli e della classe operaia. Il gioco è fatto: il centro vince, gli estremi si fanno la guerra a vicenda e vengono identificati dagli italiani come estremismi pericolosi, e da lì al 1994 l’Italia avrà sempre la croce rossa a sfondo bianco al Governo.

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Vladislav Karaneuski

Classe 1999. Studente di Lettere all'Università degli studi di Milano. Amo la letteratura, il cinema e la scrittura, che mi dà la possibilità di esprimere i silenzi, i sentimenti. Insomma, quel profondo a cui la parola orale non può arrivare.

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