La rassegna di “Milano off festival” ci ha regalato un altro spettacolo di rilievo.
I protagonisti sono sei. All’inizio uno dorme con la testa appoggiata sul banco, quello in fondo scorre con frenesia la bacheca di FB sul cellulare, un altro è tutto concentrato a intagliare con un coltellino il banco, per lasciare un segno di sé, c’è quello che guarda nel vuoto con i piedi sopra il banco e poi c’è chi si aggira come una belva chiusa in gabbia. Tutto attorno, cartacce, sedie rovesciate, banchi accatastati. Una cattedra e una lavagna. Siamo in un’aula scolastica. Questa è la Quinta C, la classe dei teppisti. Quelli che condiscono ogni frase con almeno tre parolacce, in una sorta di oscenità logorroica per colmare il vuoto che li attanaglia. Sono arrabbiati, fanno i duri, si vantano di aver già fatto scappare diversi insegnanti. La società li ha marchiati come emarginati e perdenti, e a loro non resta che sfidare l’autorità e spaccare tutto.
Sono i personaggi di Nemico di classe, del romanziere e drammaturgo inglese Nigel Williams. Un testo-cult, del lontano 1978. In Italia “fece il botto” nel 1983, grazie alla regia di Elio De Capitani. Proprio quell’anno era uscita la versione cinematografica (Klassen Feind, regia di Peter Stein) e l’eco fu enorme. Il testo era riapparso sulle scene a Milano nel 2010 (Teatro Franco Parenti, regia di Massimo Chiesa), con grande successo. Trent’anni fa i critici parlarono di «radiografia di una solitudine esistenziale senza scampo», e il testo continua a essere un evergreen, perché scoperchia il problema ancora irrisolto dello scontro generazionale, della disparità, di quella rabbiosa aggressività degli adolescenti che resta sfogo velleitario e disperato.
Scaramucce, volgarità, spintoni, sedie che volano, gestualità da ribelle bad boy. Il regista Giuseppe Sepe (Associazione Utòpia, Modena) ha voluto calcare sul discrimine sottile fra il “ci è e ci fa”: chi nel gruppo si atteggia a duro, è chi più tenacemente “recita”, indossando una maschera per celare la propria fragilità. Ma in questa aula claustrofobica di un’anonima periferia, le maschere a poco a poco cadono.
Nell’attesa del prossimo professore, che sarà l’ennesimo zimbello del gruppo, occorre ammazzare la noia. E allora perché non fare noi la “nostra” scuola? Ecco il gioco: ognuno dovrà insegnare agli altri qualcosa. Facile a dirsi. Cinque minuti tutti per me, in cui non posso sfigurare davanti al gruppo, devo provocare e far ridere, ma fare anche sul serio: il “pubblico” dei compagni è giudice spietato e la leggerezza del gioco ben presto si sfilaccia. Ciò che ognuno di loro sa veramente è il sapore amaro della vita, intrappolata in situazioni famigliari impossibili e senza orizzonti per il futuro. Ogni intervento infatti scivola dal giocoso alla confessione urlata della propria solitudine e impotenza.
I giovani attori sono energici e affiatati. Alcune rigidità acerbe nella recitazione sono presto dimenticate nella buona resa del crescendo drammatico, quando da bulletti di quartiere pronti a spaccare il mondo, si trasformano in ragazzi fragili. Scimmiottano gli adulti e i loro discorsi razzisti, hanno sempre l’argomento-sesso a fior di labbra, e la coscienza di essere dei perdenti. Anche se sbeffeggiano il compagno che parla di giardinaggio, vorrebbero essere come quei fiori protetti da steccati e campane di vetro contro gli assalti dei gatti randagi. Ma nessuno si cura di loro né li protegge dal mondo. «Voi non ci avete dato niente, e allora noi sfasciamo tutto», è la reazione esasperata.
La situazione è quella beckettiana di un’attesa. La porta è chiusa, ma un ragazzo è sempre di guardia: dapprima è di vedetta per montare la barricata di banchi e sedie e impedire l’accesso agli adulti. Ma poi subentra la noia, e quasi la supplica: arriverà mai qualcuno a farci lezione, a insegnarci qualcosa? Il capo del branco è il più cinico, vorrebbe addestrare gli altri ad aprire gli occhi sulla realtà, e si prende gioco con crudeltà delle loro debolezze. A lui si oppone il ragazzo mite e sensibile che vorrebbe mostrare una via alternativa. Non bisogna stancarsi di chiedere, avere la pazienza di attendere: prima o poi qualcuno entrerà da quella porta e insegnerà loro come vivere…
Anche se il testo è sempre attuale, alcuni dettagli mostrano il tempo che passa. I critici attenti allora segnalarono la variante traduttiva di De Capitani: l’odio contro i “negri” della periferia londinese diventava nella Milano sottoproletaria l’ossessione contro i “terroni”. Oggi il regista Sepe sceglie di mantenere entrambe le carature, perché sintomi del nostro tempo: il pregiudizio che perdura contro il napoletano si sposa alle farneticazioni marchiate Lega contro i “negri” che arrivano sui barconi per rubarci il lavoro e conquistare il territorio italiano. La Quinta C degli emarginati si può pensare nel milanese, come pure a Scampia o in una banlieu parigina: in quelle periferie che sono «i buchi neri delle città, dimenticati da Dio e dagli urbanisti» i nostri ragazzi giocano a fare i bulli o i piccoli boss. Proprio quando si sentono soli e abbandonati, non trovano di meglio che rovinarsi la vita e sfogare la propria rabbia su cose e persone, diventando facili prede di criminali, spacciatori o imbonitori che li indottrinano o li imbottiscono di tritolo…
Il regista sceglie una nota di delicatezza, affidata al video, inteso come una terza parete virtuale, cioè di potenzialità: ecco perché scorre un filmato in cui i ragazzi, impacciati e intimiditi dalla telecamera, rivelano che cosa vogliono fare da grandi. Sono sogni semplici (pizzaiolo, insegnante, stilista) e al tempo stesso distanti, tanto sognare non costa niente. E poi alla fine scorre una foto-gallery di ritratti: sono gli attori da bambini, sorridenti e buffi, nell’età spensierata in cui tutto era ancora da scrivere. È questo il messaggio nella bottiglia che ci invia Sepe: dobbiamo prenderci cura dei nostri ragazzi, anche quando sembra che «si rifiutano di imparare». Il vero “nemico di classe” rischia di diventare la società, che invece di annaffiare i propri fiori, chiude la porta al loro futuro.
Nemico di classe
da Nigel Williams
regia di Giuseppe Sepe
Associazione Utòpia, Castelnuovo di Rangone (Modena)
Teatro Linguaggicreativi – Milano Off Festival
16-18 giugno 2017