«Cos’è dunque il tempo? Se nessuno m’interroga, lo so; se volessi spiegarlo a chi m’interroga, non lo so». Sant’Agostino, nel libro XI delle sue Confessioni, si scopre incapace di individuare la natura del tempo. Peraltro, nemmeno noi, oggi, sapremmo proporre una definizione più netta. Quello che sappiamo per certo è che ci pare di averne sempre meno a disposizione. Siamo giunti a una saturazione bulimica di ogni istante delle nostre giornate; che non va sprecato, che non deve a nessun costo rimanere inutilizzato. Ma il nostro è davvero un buon modo di impiegare il tempo? Il filosofo d’Ippona avanzava le sue considerazioni in un periodo – il suo – in cui non c’erano lancette a scandire le ore e l’avvicendarsi delle attività da svolgere; pressoché solo le campane detenevano la prerogativa di annunciare gli inizi e le fini di rituali e mansioni. Al giorno d’oggi, invece, siamo subissati di orologi e display che ci indicano di continuo cosa fare.
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La tecnologia digitale ha stravolto, e non smette di farlo, il modo in cui percepiamo e gestiamo il nostro tempo, in specie quello che trascorriamo al lavoro. Tale enorme cambiamento ha svariate ricadute nocive e pericolose: sulla nostra salute mentale, sulla nostra facoltà di concentrazione e, da ultimo, sulla nostra incolumità fisica. In particolare, gli aspetti maggiormente pregni di tali insidie sono: il multitasking e la rapidità di svolgimento di un singolo compito.
Naturalmente, si tratta di modalità comportamentali fortemente e inestricabilmente connesse e- di chiara derivazione dai modi in cui funziona la tecnologia digitale. Non è affatto un caso che esse vengano rimodulate giorno per giorno, in base agli sviluppi tecnologici a cui noi, puntualmente, siamo chiamati ad adeguarci. In che maniera? Partendo dal primo punto, il multitasking, si nota subito che già lo stesso termine proviene dall’ambito ingegneristico; : si riferisce al fatto che un unico processore può effettuare più calcoli in contemporanea, senza bisogno di ricorrere a più unità parallele, perché passa assai rapidamente da un compito all’altro. Qual è la ripercussione sul posto di lavoro? Tra mail e messaggi da controllare momento per momento e chiamate a cui rispondere, il tempo della concentrazione si è drasticamente ridotto, a scapito di importanti capacità, come l’attenzione.
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Secondo uno studio condotto nel 2005 dall’Istituto di Psichiatria dell’Università di Londra, i lavoratori distratti da e-mail e telefonate registrano un calo del QI due volte maggiore rispetto a quello sofferto dai fumatori di marijuana. Chiunque abbia esperienza, anche minima, di uffici e redazioni di giornali di cronaca locale, può senz’altro testimoniare che si può arrivare a dover redigere fino a ottanta articoli a settimana, e comunque non meno di otto in un solo giorno.
Riders e multitasking: quando il tempo è nemico
Il multitasking preteso ha sempre meno limiti e, per contro, invade sempre più settori, come quello dei tassisti o, meglio, degli autisti privati. Negli Stati Uniti sta imperversando il successo di Uber, un’azienda che fornisce un servizio di trasporto automobilistico privato, tramite un’applicazione mobile con cui comunicano passeggeri e autisti. Fondata nel 2009 a San Francisco, è cresciuta velocemente al punto da contare, nel 2018, tre milioni di autisti attivi in tutto il mondo, prendendo piede anche in Italia, in particolare a Milano, Roma e Torino. La ricercatrice Alex Rosenblat ha viaggiato su e giù per gli Usa e il Canada dal 2014 al 2018, toccando più di venticinque città, per studiare Uber e il modo in cui impatta sul lavoro degli autisti. Le ricerche sono confluite nel suo libro Uberland – how Algorithms are rewriting the Rules of Work.
Nelle sue interviste ha riscontrato che molti – per via delle magre retribuzioni – utilizzano più di un’app per intercettare corse da effettuare (ad esempio, oltre a quella di Uber, anche quella di Lyft, un’altra azienda di trasporti privati). Accade che, quando si accetta una corsa tramite un’applicazione, occorre disconnettersi in fretta dall’altra, perché può giungere in qualsiasi momento una richiesta e, dato che il tasso di accettazione è fondamentale per poter rimanere iscritti all’applicazione, e quindi continuare a lavorare, bisogna sbrigarsi e passare senza sosta dal log in al log out dalle piattaforme, pure mentre si guida: quindici sono i secondi entro cui poter accettare una corsa. In barba ai proclami di libertà e indipendenza di cui, stando a Uber, godono gli autisti, che sarebbero i capi di se stessi, di fatto essi non possono decidere quando connettersi e disconnettersi, pena l’abbassamento del tasso di accettazione che è – non si esagera – vitale affinché il proprio account non venga disattivato. Tutto ciò è «spesso stressante», a detta di un uomo intervistato dalla Rosenblat.
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Per molti versi vicini agli autisti troviamo i corrieri che consegnano pacchi a domicilio. Il film Sorry We Missed You, uscito nel 2019, apre scorci tanto inaspettati quanto inquietanti. La pellicola cinematografica funge bene da cerniera tra il multitasking e il secondo punto, la rapidità con cui si deve portare a termine ogni incarico, giacché scoperchia una realtà in cui i ritmi serrati e convulsi non lasciano tregua né scampo, nemmeno ai bisogni fisiologici.
I corrieri sono tracciati ogni singolo istante lavorativo, in tutti i loro movimenti. Sanno che devono prestare molta attenzione a centrare i tempi stimati di arrivo elaborati dagli algoritmi; se sgarrano o ritardano anche solo di un minuto, ne subiranno le conseguenze negative in termini di paga. Ogni imprevisto è dunque vissuto con ansia: dall’ascensore che non si trova, al cliente che non risponde al telefono. Ma c’è di più. All’inizio del film, il protagonista, alle prese con il caricare il furgone degli imballaggi da consegnare, viene avvicinato da un collega più esperto, che si preoccupa di dargli qualche dritta. La raccomandazione più importante di tutte non tarda a venire, quando gli allunga una bottiglia di plastica vuota accompagnando il gesto con un «ne avrai bisogno». «Per fare cosa?», gli domanda un po’ disorientato il protagonista, rigirandosela tra le mani. «Ci pisci dentro», chiarisce senza mezzi termini l’altro, facendogli intendere senza possibilità di equivoci che il tempo sarà il nemico contro cui combattere, con tanta febbrile urgenza da non potersi permettere neanche una sosta in bagno.
Una condizione simile la vivono anche i fattorini che consegnano il cibo. Ping Sun, ricercatrice all’Accademia cinese di Scienze Sociali, nei suoi studi sulle relazioni tra algoritmi e rider si concentra su pochi e selezionati parametri, il primo dei quali è rappresentato proprio dalla temporalità. Ciò che emerge dalle sue numerose interviste ai corrieri che lavorano tramite le maggiori piattaforme online di consegna di pasti a domicilio in Cina (Meituan, Eleme e Baidu Deliveries) è sconcertante.
Dallo studio, viene a galla con prepotenza tutta la frustrazione patita dai fattorini nella loro estenuante e sfibrante rincorsa per adattarsi e sottostare alle tempistiche imposte dagli algoritmi. Anche loro, difatti, lavorano tramite un’app mobile, sotto molteplici aspetti analoga a quella di Uber.
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I tempi di consegna previsti si riducono visibilmente ogni anno di più. Il sistema mangia minuti e diventa sempre più famelico. Per tentare di non portare ritardo, i riders si trovano ora costretti pure a violare le regole del codice stradale, giacché le tempistiche che predicono la durata considerano il viaggio in linea d’aria, come se al posto delle biciclette o dei motorini i corrieri avessero degli elicotteri! Il risultato? Si è verificato un consistente incremento degli incidenti in cui sono coinvolti i riders. Solo a Shanghai nel 2017 in media ogni due giorni e mezzo un rider ha avuto un incidente, a volte mortale. Rispettare i tempi riveste un’importanza capitale, poiché recensioni negative, da parte dei clienti, non fanno altro – proprio come con Uber – che contribuire a diminuire il compenso che sarà corrisposto.
I riders, che per Ping Sun sono «sotto la stringente autorità degli algoritmi», possiamo vederli al vertice di una piramide nella quale sempre più lavoratori stanno venendo implicati. In questo mondo dove i ritmi umani (fisiologici, cognitivi, ecc.) vengono progressivamente scalzati da quelli delle macchine, ciascuno di noi rischia di divenire un mattoncino dell’edificio in cui il tempo viene stabilito, rubato, riprogrammato, divorato, profilato da una tecnologia avulsa, per sua stessa natura, da bisogni umani che, al contrario, noi non possiamo eludere.
Virginia Benenati
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