Fra i registi dell’area baltica che negli ultimi anni hanno fatto il loro ingresso nei teatri d’Europa con una forte carica di freschezza e novità, un nome di rilievo è sicuramente quello del lettone Alvis Hermanis, Direttore Artistico del New Riga Theatre. Artista eclettico e raffinato, ha curato regia e scene di opere liriche e in Italia allestimenti scaligeri di successo (lo vedremo alla Scala anche nella prossima stagione con Madama Butterfly di Giacomo Puccini). Quale la cifra caratteristica dei suoi lavori? Risponde lui stesso: «Il mio stile è di non avere uno stile». Ogni sfida comporta un linguaggio flessibile e nuovo.
Al Crt di Milano dal 9 all’11 giugno 2016 Hermanis ha portato Black Milk (2010), che ha già calcato le scene di mezzo mondo. Lo spettacolo è il risultato di una lunga ricerca presso gli abitanti delle campagne lettoni, una sorta di indagine antropologica sull’identità del Paese, che rischia di essere spazzata via dalla moderna economia globalizzata. Non si tratta però di una curiosità folkloristica, né di una lamentazione sui bei tempi andati o di una denuncia rancorosa. Un delicato mosaico compone frammenti di storie, raccontate con la semplicità genuina del popolo, favole, filastrocche e anche versi dal Poema sul latte (1977), una delle opere poetiche più celebri di Imants Ziedonis (purtroppo non tradotto in italiano).
A parlare (in lettone, con traduzione simultanea in cuffia per il pubblico) sono contadini, uomini senza età e senza tempo che hanno visto occupanti nazisti e truppe sovietiche, con i loro diktat, divieti, brutalità, deportazioni. Ora piovono le regole dell’economia europea e il settore caseario lettone è in grave sofferenza anche a causa delle tensioni fra Russia e UE riguardo alle operazioni militari in Ucraina. Ma l’orizzonte tragico della Storia e della politica è solo un cenno vago, una nuvola di passaggio sopra le teste di questi uomini tenaci, monadi solitarie abbarbicate alle tradizioni ancestrali di una vita legata alla terra.
Fedele compagna di ogni giornata è la mucca, vera protagonista della pièce. Intorno a lei infatti si concentra l’operazione drammaturgica di Hermanis. Quello che era iniziato come uno scenario realistico trapassa in tonalità di rarefatta bellezza al limite fra realtà, visione, favola, poesia, con una cura estrema per l’estetica dell’immagine. Al levarsi del sipario, sei contadine prosperose, fazzoletto in testa e stivaloni, piegate dagli anni e dalla fatica, siedono su una panca, dandoci le spalle: chiacchierano fra loro e poi si avviano alla mungitura. Poco dopo si tolgono giacconi e stivali da stalla e si fanno belle con ritocchi di cipria e rossetto. Mentre dai giacconi emergono sgargianti vestiti a fiori e scarpe col tacco, sotto i nostri occhi si realizza una inattesa metamorfosi: le donne diventano mucche. Infilano all’orecchio un giallo pendaglio di plastica con un numero (il marchio), legano al collo una campana, sistemano sul capo un cerchietto munito di graziose corna bianche e in mano tengono una treccia, che agitano nervosamente per scacciare le mosche. Da questo momento i loro passi mimeranno l’andatura goffa e placida delle vacche, con una grande espressività degli occhi e muggiti “parlanti”.
Alcune di loro a turno e per poco ridiventeranno contadine, spesso affiancate dall’unico uomo (Vilis Daudziņš), che a seconda dei momenti è toro, padrone o addetto al mattatoio. Carezzando con affetto gli animali sempre presenti, ci raccontano le infinite storie delle mucche dai nomi fantasiosi (Papavero, Mirtillo, Rugiada, Muška). I toni variano: c’è la serie didascalica dei consigli per mungere, gestire il periodo degli amori, assistere al parto e portarle al macello. A prevalere però è la confessione che muove tra l’affetto e il giocoso, per illustrare carattere e personalità: c’è la mucca vagabonda, che fugge sempre chissà dove (forse alla ricerca della mitica India?), la curiosa e l’innamorata, tutte complici ed empatiche verso i padroni.
I racconti sono accompagnati dalla gestualità delle mucche-attrici e anche i dettagli crudi si trasformano in leggerezza e poesia: la mucca in calore alla ricerca del toro appare vestita da sposa, e getta alle compagne un bouquet di lattuga, prontamente mangiato. «La mucca è tale e quale a una donna» ci assicurano i contadini, e non solo perché è fertile una volta al mese e il suo latte dona la vita. Ad esempio riconosce i padroni non dall’odore, ma dalla voce. E infatti capisce tutto e sa come farsi capire, «perché è un’attrice». Si profila allora un corto-circuito: l’attrice che per copione ora impersona la mucca (attrice-mucca), viene definita mucca-attrice, perché i suoi muggiti, gli strofinamenti del muso, i colpi di coda, il reclinare del collo e gli occhi malinconici, sono una partitura di affetti e di comunicazione. Gradatamente i due piani, quello umano e quello animale, si contaminano a vicenda, come quando le sei mucche, sedute come capricciose scolarette di fronte alla mangiatoia, mangiano le mele solo se intanto il padrone legge loro una favola. Spesso i ruoli si invertono, ed è allora la mucca a raccontare la storia dei suoi padroni, a ricordare le feste e i balli di una volta alla festa di San Giovanni, o a cantare filastrocche per propiziare fiumi di latte e soffice panna, perché «il burro fiorisca come un prato di fiori».
Nei villaggi-fantasma delle campagne lettoni oggi sono rimasti pochi vecchi irriducibili: unica compagnia, la mucca, mentre armeggiano con cellulari per scambiare due parole con i nipoti lontani. Nulla è più come una volta: il latte di città è annacquato e non sa di nulla, i campi si spopolano e «presto le mucche le vedremo solo allo zoo». Ecco allora il ricordo, a metà fra la visione e la leggenda, quando una vicina scagliò il malocchio e le mucche diedero per alcuni giorni latte nero (il black milk del titolo). E il racconto si fa segno scenico, quando le attrici-mucche portano in scena vasi di vetro colmi di liquido nero. Forse è allegoria cromatica dell’inizio della fine: un latte-petrolio o inchiostro che cancella il nitore di un’epoca legata alla madre-terra, il nero alienante che avanza sul ritmo della tecnologia, ma spezza valori e identità.
Il contesto locale e periferico (la Lettonia) si amplia però a un discorso globale e addirittura cosmico, ad esempio quando le mucche danzano al chiaro di luna, lo sguardo ammaliato che affonda nella Via Lattea, mentre le punte delle corna si illuminano e punteggiano l’oscurità come stelle. Le mucche sono creature di terra e di cielo, sembra dirci Hermanis, e la vita di campagna è radice di ogni civiltà. All’interno di questo quadro visionario rientra anche l’utopia di un’armonia possibile nella scena di chiusura: la mucca e i padroni giocano e scherzano insieme, come bambini, su una trave basculante. Su e giù, dalla terra al vuoto, in quella altalena incomprensibile e crudele che è la vita.
Black Milk
regia di Alvis Hermanis
Produzione: The New Riga Theatre
Crt – Teatro dell’Arte, Milano
9-11 giugno 2016
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