È stato pubblicato l’8 maggio l’ultimo lavoro dei Radiohead, un disco intitolato A Moon Shaped Pool, disponibile nei negozi però solo dal 17 giugno. Uno stacco che riporta indietro nel tempo, forse non agli anni ’90 quando i Radiohead erano nel pieno del loro splendore, ma sicuramente prima di King of Limbs. Il confronto con i precedenti album sembra naturale perché un’evoluzione la si va a cercare nelle radici, una crescita o un cambiamento arriva sempre dal passato.
Per Thom Yorke sembra un attacco di nostalgia che però porta ottimi risultati, il ritorno agli strumenti acustici e soprattutto “reali”, quali le chitarre elettriche e la batteria. Certamente non si parla di un album da rock band, quale è stato Pablo Honey, ma tutti sappiamo che quello stile è solamente una foto ingiallita nella mente di Yorke. I suoni elettronici sono e saranno sempre presenti nei Radiohead del nuovo millennio, profondi e ariosi: ma quest’album sembra avere aria nuova, sia in fatto di stile sia di suono.
Una menzione speciale deve essere fatta alla strategia social adottata dalla band con l’eliminazione di tutti i contenuti dalle principali pagine dei social network. Alcuni ci vedono un significato profondo, una riga bianca tirata sul passato in vista di un nuovo disco in uscita, altri una mera strategia di marketing per far parlare di sé senza aver speso un centesimo in promozione, muovendo così tutte le principali testate giornalistiche di musica a caccia del mistero. Quale sia stato il significato reale di questa mossa è difficile dirlo, si riconferma solamente l’imprevedibilità e la genialità di fare qualcosa che nessuno aveva ancora fatto prima.
I primi singoli usciti, Burn the Witch e Daydreaming, hanno subito delineato il fatto che il disco sarebbe stato diverso dal precedente, vicino a The Bends, OK Computer e Kid A. Il primo singolo ha l’obiettivo di mettere in risalto le qualità da compositore di Jonny Greenwood, considerato un grande musicista contemporaneo anche di colonne sonore. Nel disco risorgono dall’elettronica gli archi, strumenti che Yorke deve aver riscoperto per le loro proprietà drammatiche in sostituzione ai synth e pad che in Hail to the Thief e King of Limbs abbondavano parecchio.
Troviamo ballate come Desert Island Disk e sonate di archi come in Glass Eyes, poi un giro di basso e batteria semplice ma efficace in Identikit e una struttura che spazia dal jazz a un’orchestra diretta da Greenwood che ricorda lontanamente Paranoid Android in The Numbers.
Il disco poi si conclude in una struggente intimità con una canzone registrata vent’anni fa insieme a The Bends, True Love Waits. Un pezzo amatissimo dai fan, i quali erano in possesso della sola versione live inserita nel disco I Might Be Wrong – Live Recordings del 2001: ri-arrangiata con il pianoforte, con una straziante voce di Yorke che trasforma una canzone d’amore, quasi per vizio, in una canzone malinconica che sembra rompersi in un pianto. Questa metamorfosi alcuni sostengono sia dovuta alla recente rottura con la moglie, Rachel Owen, dopo 23 anni di relazione.
La critica si è divisa nel dare un’opinione al disco, una direzione formale che incaselli tutti i suoni e le canzoni nel presente, passato e futuro della band. Non si può certo dire che sia un brutto disco, anzi: le canzoni pesanti e piene di elettronica che si trovavano nei “recenti” lavori della band sembrano aver lasciato spazio alle chitarre, pianoforti e archi. I punti chiave che hanno portato i Radiohead a un disco sorprendente sono le leve che sono sempre state nel cuore di Thom Yorke: una tristezza drammatica per un amore svanito, il fervore ambientalista, la rabbia contro il sistema e la politica. Certamente non si può denaturare Yorke dai pad e dai synth, ma in questo disco ci possiamo dimenticare l’abuso elettronico e ascoltare un passo indietro nel tempo che però suona con l’esperienza e il vissuto del presente.
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