È opportuno spendere altre due parole sulle esternazioni del Ministro Giuliano Poletti. È opportuno farlo perché, al di là delle polemiche che hanno suscitato, sono una lucida e disincantata descrizione del presente e, soprattutto, del futuro di noi giovani. Chi ha a cuore la propria vita – un po’ tutti, si presume – non può non leggerle e non riflettervi sopra almeno un minuto.
Da circa quarant’anni, da quando l’Europa ha iniziato a importare dai gringos americani quel cancro culturale che è il neo-liberismo, la società occidentale ha imboccato una strada di regresso politico, sociale ed economico. Ce lo vendono come «progresso» – fateci caso: anche il renzismo si autoafferma come «progressismo» – eppure la nostra società sta tornando a una realtà simile a quella ottocentesca: piano piano le classi dirigenti reazionarie che si sono succedute hanno posto in atto un’opera di smantellamento del Welfare State (il sistema politico-economico-fiscale che si era affermato nel secondo Dopoguerra e aveva come fine principale la promozione dell’uguaglianza e delle pari opportunità di partenza) in vista di un ritorno al suo predecessore: lo Stato Liberale, un sistema in cui lo Stato interviene il meno possibile nella società e la realtà socio-economica è essenzialmente un prodotto impersonale della libera interazione tra i privati, con un concorso limitatissimo delle istituzioni pubbliche (le quali, al massimo, possono dettare regole del gioco light funzionali al libero dispiegamento degli interessi privati). L’azione riformatrice del Governo Renzi, dalla riforma costituzionale al Jobs Act alla Buona Scuola, non è che il punto terminale di questo processo restauratore che prevede la decostruzione del pubblico e l’espansione del sistema privato.
Nello Stato Liberale non ci sono Costituzioni che tengano: la Costituzione del ’48, con tutti i suoi bellissimi principi, non è percepita altro che come un fastidioso foglio di carta pieno di ideali che si vorrebbero teoricamente imporre all’assetto reale dei rapporti di forza. Nella realtà, sostengono i fautori dello Stato Liberale, ci sono differenze sociali ed economiche tra famiglie e individui, differenze da cui derivano rapporti di forza dei quali la Storia (il susseguirsi complessivo degli eventi) è il prodotto. In questa prospettiva uno Stato che impone tassazioni progressive, che costruisce e gestisce scuole pubbliche, che mette in piedi sistemi sanitari universalistici le cui prestazioni si pagano in base al reddito familiare, che impone procedure burocratiche terze, insomma uno Stato che redistribuisce risorse e opportunità, non è altro che una fastidiosa violenza ai rapporti di forza reali. Questi prevedono che i ceti sociali più ricchi abbiano i mezzi per assicurare il futuro ai propri figli (grazie all’esistenza di scuole private, costosissime e di alta qualità, che danno loro l’alta formazione necessaria a gestire il sistema produttivo o perseguire carriere politiche e istituzionali) mentre agli altri ceti (che costituiscono la stragrande maggioranza della società) sono lasciate le briciole: servizi pubblici scadenti e sottofinanziati, occupazioni modeste e precarie, soprattutto il vortice narcotizzante dei consumi, creato e alimentato dalle élites in vista del duplice obiettivo della distrazione di massa e del perseguimento del profitto economico.
Che cosa c’entra il Ministro Poletti con tutto questo? C’entra eccome, perché in fondo ci dice a chiare lettere – anche se con poca delicatezza – quello che è il futuro del 99% dei giovani che non provengono dalle famiglie appartenenti ai ceti più ricchi e potenti: una vita di lavori poco qualificati e precari, per lo svolgimento dei quali non serve certo avere la laurea col massimo dei voti o una cultura generale particolarmente vasta. La nostra società sta tornando – a causa di scelte politiche consapevoli – verso uno stato di cose in cui il figlio di un medico ha più opportunità di laurearsi in Medicina rispetto al figlio di un operaio. Uno stato di cose in cui le migliori Università sono private, collegate con le Istituzioni Internazionali e i Consigli di Amministrazione delle grandi imprese, proibitive per i più: in modo da rendere il futuro un bene acquistabile col denaro, come tutti gli altri beni presenti in commercio.
Ai figli dei ricchi il futuro migliore, a tutti gli altri le briciole. In poche parole: si sta formando una nuova aristocrazia, capace di tramandare la propria posizione sociale attraverso le generazioni, che poggia il proprio status non su privilegi normativi (così era nella società di Antico Regime, sopravvissuta fino al 1789) bensì sul potere economico. È triste e ingiusto, eppure è la realtà odierna delle cose. Ad oggi mancano ancora gli strumenti politici per reagire e manca soprattutto la sensibilità collettiva della gravità del problema, senza la quale la politica non sarà neppure spinta alla ricerca di una soluzione. Motivo per cui occorre parlarne, parlarne e parlarne ancora. A prescindere dal Ministro Poletti; a prescindere soprattutto dall’età in cui ci si laurea.
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