Intervista a Michele Angrisani, regista di «La classe estinta»

Minimale nella forma, potente nei contenuti: il grido della classe operaia al Teatro delle Maddalene con il monologo teatrale «La classe estinta». Ne abbiamo parlato con il regista

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Michele Angrisani è il regista di La classe estinta, monologo teatrale liberamente ispirato a Mammut di Antonio Pennacchi, che ha debuttato al Teatro delle Maddalene di Padova il 30 gennaio nell’ambito della rassegna Angolazioni. Lo spettacolo tratta della classe operaia, sentiamo la voce di un capo sindacalista, interpretato da Giancarlo Previati, che descrive con rabbia e frustrazione la sua situazione. La vicenda è presentata in maniera profondamente veritiera e onesta, nonostante la messa in scena volutamente minimale, tiene incollato lo spettatore per un’ora grazie anche alla pluralità dei personaggi. Nonostante sia solo uno l’attore in scena riesce infatti a mostrare la diversità delle voci e dei pensieri di ognuno degli operai, costruendo una vera storia “di classe”.

Lo spettacolo è stato presentato nella forma quasi di una lettura, ma con la presenza di oggetti di scena con cui l’attore interagisce, non a leggio. Abbiamo intervistato il regista dello spettacolo, Michele Angrisani che ci ha spiegato non solo la modalità di messa in scena, ma anche l’importanza di raccontare una storia come questa oggi.

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Lo spettacolo è stato rappresentato come reading teatrale già due anni fa, con l’idea di riprenderlo e di svilupparlo. Io collaboro con Giancarlo Previati e Sergio Marchesini ad altri progetti sempre in ambito teatrale. La rassegna è alla sua seconda edizione, organizzata dall’Assessorato del Comune di Padova in collaborazione col Teatro Stabile del Veneto, ho partecipato anche lo scorso anno con un altro progetto dal titolo In fondo al buio, rappresentato con azione scenica.

Quest’anno abbiamo vinto il Premio di Produzione Teatro Stabile del Veneto e a maggio sarà rappresentato al Teatro delle Maddalene, lo spettacolo narra una vicenda avvenuta a Padova il 3 maggio 1992, quando Matteo Toffanin e Cristina Marcadella, appena ventenni, sono stati vittime di uno scambio di persona che è costato la vita di Matteo, a soli 23 anni. Invece quest’anno alla rassegna ho presentato proprio La classe estinta ed è stato selezionato insieme ad altre cinque compagnie. La versione che è stata messa in scena prelude allo spettacolo vero e proprio, in quanto è stata presentato come monologo teatrale.

Una parte della lettura è assolutamente voluta e prevista, ci sono delle descrizioni anche molto tecniche dei macchinari che utilizza quindi l’idea era quasi quella delle schede tecniche oppure quando tiene un discorso in assemblea o ha dei ricordi appuntati, quindi una parte di lettura ha un’esigenza drammaturgica, un’altra è legata al fatto che lo spettacolo è work in progress. Ma anziché la classica lettura a leggio, ho preferito un’azione scenica con interazione con gli ambienti e non un reading totale.

Rientra nel mio percorso personale. Mi sono molto occupato di storia operaia in un percorso di ricerca e produzione artistica perché sono un regista anche cinematografico, ho realizzato un documentario dal titolo È andata così sulla storia della ex Saimp, classica azienda del modello industriale del Dopo Guerra manifatturiera, ripercorrendo la storia di questa industria ho ripercorso un pezzo dell’industria italiana. Questa fabbrica, simbolo della storia industriale di Padova, è stata anche un’importante scuola sindacale a livello cittadino e anche nazionale, questo documentario è stato realizzato pochi giorni di prima che questa grande area venisse abbattuta e al suo posto oggi sorge un centro commerciale. Ho avuto modo di raccogliere le testimonianze di ex-operai che hanno lavorato anche negli anni Cinquanta, con condizioni di lavoro estreme che svolgono degli spunti importanti sull’attualità. Il mio primo documentario poi si chiama Maledettamente Nordest quando crollò il modello Nordest, con la partecipazione dello scrittore Massimo Carlotto, quindi mi sono sempre interessato a queste tematiche.

L’interesse per queste tematiche fa parte nel mio percorso di studi anche universitario; quindi avendo amato la letteratura di industria per esempio di Paolo Volponi o Ottiero Ottieri. Quello di Pennacchi è l’ultimo capitolo di quella cultura a mio dire oltretutto a opera di un ex sindacalista, una voce che ha raccontato brillantemente il lavoro, oggi se ne parla sempre meno e lui offre degli strumenti preziosi. Quando l’ho letto mi ha toccato e ho pensato che questo romanzo fosse estremamente interessante da mettere in scena. La classe estinta non è un adattamento diretto, è una rielaborazione, ma oltre al fatto che a parlare è una voce interna a quella dimensione industriale, racconta un preciso periodo storico, quando quell’epoca stava tramontando.

Prelude alla grande trasformazione italiana, dalle multinazionali fino al venire meno della dimensione di lotta sindacale, il sindacato è cambiato. Quindi l’amarezza e la rabbia di questo capo sindacalista diventa paradigmatica e racchiude tutta una classe “estinta” appunto di persone che avevano creduto nello sviluppo e possedevano un orgoglio di appartenere alla classe operaia e di credere che si potessero raggiungere conquiste in termini di diritti e tutela al lavoro. Cosa che fortunatamente è avvenuta, ma il racconto ci mostra anche quello che sarebbe potuto essere e non è stato in una narrazione potente che offre strumenti di riflessione anche sull’attualità, anche se racconta un’epoca lontana.

Assolutamente è bene approfondire queste tematiche per un motivo ben preciso: la funzione della memoria, il teatro in questo ha un ruolo fondamentale, ci consente di leggere molto il presente. Senza retorica, quel mondo che è così lontano e sconosciuto per i ragazzi di 15 o 18 anni, ci presenta un modello di lavoro che ovviamente oggi non esisterebbe più, ma dà delle coordinate per leggere cose che oggi abbiamo assimilato ma non sono così scontate. Banalmente, entrare in un’azienda, crescere con il tuo lavoro, è qualcosa che oggi purtroppo non c’è più. Il fatto che le industrie investissero nella ricerca e avessero una visione del lavoro – penso all’Olivetti che racconta Volponi – oggi purtroppo tutto è invece legato a una questione di costi, per cui la qualità del lavoro e lo sviluppo di chi lavora è molto legato a una corsa al ribasso per la qualità, per le condizioni del lavoro e per il demansionamento. In tantissime aziende si è costretti a essere demansionati pur di tenersi il lavoro.

Si è invertita proprio una rotta, mentre prima entravi in un modo e l’azienda ti faceva crescere, come mi hanno raccontato gli operai che ho intervistato tu sapevi che contribuivi con il tuo lavoro allo sviluppo dell’azienda e dell’industria italiana. Oggi il mercato del lavoro si è frammentato, è una giungla dove purtroppo non ci sono prospettive di crescita vere anche per chi studia. Questo racconto proprio perché viene da molto lontano ci aiuta a comprendere il lavoro; attenzione non c’è nulla di nostalgico: non era una passeggiata o bello o esaltante lavorare per esempio alla Fiat negli anni Sessanta, parlo di una dimensione del lavoro. Il contro canto dal punto di vista della lotta sindacale è venuto meno, come fa notare Antonio Pennacchi.

Tutto è merito delle persone con cui ho lavorato, prima di tutto Previati che ricostruisce l’amarezza e la stanchezza del personaggio protagonista, ha fatto un grande lavoro a partire dal testo e dalla mia visione del lavoro anche nella caratterizzazione degli altri personaggi che circondano il protagonista e sono apparentemente secondari. Ha potuto ricostruire la pluralità della classe estinta degli altri colleghi. Riguardo alla musica che per me è fondamentale nei miei lavori, non è mai un sottofondo ma è un elemento del racconto, Sergio Marchesini è riuscito a evocare le atmosfere e i sentimenti che fanno parte di questa storia. La sua musica secondo me non era la classica alternanza voce-musica che si vede spesso, ma un elemento centrale della drammaturgia.

Scenografia, luci e suono sono tre elementi fondamentali di questa storia che nella fase successiva saranno ancora più essenziali; il mio obiettivo, e in questo devo ringraziare lo scenografo il Maestro Antonio Panzuto, è quello di evocare più che di mostrare per raccontare una storia che sta finendo e che non c’è più, materialmente, è estinta. Abbiamo messo degli oggetti di scena per ora, ma si arriverà a ridurli per evocare con la scena, con le luci di Paolo Pollo Rodighiero che vuole cogliere le emozioni del personaggio oltre che degli ambienti. I suoni legati alla fabbrica sono poi sicuramente fondamentali, perché hanno una potenza molto grande. Dal punto di vista registico si vuole arrivare a suggerire tutta la dimensione della storia spogliando la scena lasciando che siano parole, suoni e interpretazione a riempirla e caratterizzarla per arrivare al cuore di una vicenda che da sola ne racconta tante altre.

Foto di copertina di Lamberto Gozzo

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Silvia Argento

Nata ad Agrigento nel 1997, ha conseguito una laurea triennale in Lettere Moderne, una magistrale in Filologia Moderna e Italianistica e una seconda magistrale in Editoria e scrittura con lode. È docente di letteratura italiana e latina, scrittrice e redattrice per vari siti di divulgazione culturale e critica musicale. È autrice di due saggi dal titolo "Dietro lo specchio, Oscar Wilde e l'estetica del quotidiano" e "La fedeltà disattesa" e della raccolta di racconti "Dipinti, brevi storie di fragilità"

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