Nelle scorse settimane, a Collepasso, in provincia di Lecce, una studentessa ha visto negarsi da parte di un’impiegata la possibilità di acquistare dei prodotti di igiene mestruale al supermercato. Ciò in conformità con l’ordinanza emessa il 23 marzo dalla regione Puglia (ed in vigore fino al 6 aprile) che in zona rossa, oltre le diciotto, vieta l’acquisto di beni che non siano di prima necessità. E in Italia, per chi non lo sapesse, gli assorbenti beni di prima necessità non lo sono. Giunta alla cassa, la studentessa è stata invitata a compilare un’autocertificazione in cui avrebbe dovuto dichiarare di avere realmente bisogno di quegli assorbenti, e perciò di avere le mestruazioni. Sì, esatto: di star veramente sanguinando.
Epifania? No, probatorietà
Abitare quotidianamente delle situazioni, degli oggetti, ce ne fa dimenticare la non gratuità. Almeno fin quando non sopraggiungono delle circostanze epifaniche a suggerirci che ciò che davamo per scontato — naturale? — in realtà non lo è affatto. Può passare in sordina di tutto, se trasformato in dogma e incasellato nel paradiso acritico del partito preso, laddove nessuna maggioranza si sognerebbe mai di metterlo in discussione. E clandestinamente, in questo modo, può passare in sordina davvero di tutto. La sudiceria populista, le ingiustizie più abiette, le discriminazioni sistemiche. Di tutto. Di recente e per bocca di qualcuno, persino il catcalling. Il celeberrimo e atavico dogma dei du fischi.
Ma per chi da decenni si sbraccia per rimarcare su quale cementificazione ideologica sessista e patriarcale poggino tanto la Tampon Tax, tanto la catalogazione dei prodotti d’igiene mestruale come «beni di lusso», ciò che è successo a Collepasso ha ben poco di epifanico e molto di probatorio. Non è un segreto che nel nostro Paese persino un tartufo possa rivendicare l’etichetta di «bene di prima necessità» con un’aliquota al 5% di contro ai comuni assorbenti, tassati al 22%. Perciò ben venga se i fatti di Collepasso siano riusciti a risvegliare le coscienze di chi, stregato dal flauto magico delle quote rosa o della retorica delle pari opportunità, ha dormito sonni tranquilli cullato dalla certezza di vivere in un Paese in cui il fantomatico gender gap non è altro che una chimera con cui un esercito irrisorio di misandriche suole trastullarsi nella più deprecabile incuria di quali siano “le questioni che contano davvero”. Perché quelle famigerate misandriche di vivere in un Paese le cui sedi istituzionali (presiedute in maggioranza da uomini, gli stessi che magari faticano ancora a pronunciare senza riserbo la parola mestruazioni) hanno deliberato che su questo pianeta è più importante grattugiare tartufo sugli spaghetti che accedere ad un’igiene mestruale i cui prodotti non siano tassati allo stesso valore Iva di un cellulare in realtà lo sapevano già.
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In un mondo in cui sono le donne ad avere il ciclo, la gratuità degli assorbenti è una questione politica
Ci hanno provato nel 2015 il leader di Possibile, Giuseppe Civati, e l’onorevole Beatrice Brignone ad avviare una campagna per la riduzione dell’aliquota sui presidi igienici mestruali. L’istanza, giunta alla Camera, ha incontrato però la bocciatura sia dei pentastellati che della Lega. A porre lo stop è stata Carla Ruocco del M5S, allora presidente della Commissione Bilancio della Camera dei Deputati, spiegando che «il costo di un abbassamento dell’Iva al 10%» sarebbe stato di «212 milioni e di oltre 300 milioni» se la soglia fosse stata posta al 5%. Una decisione che ci consentì di continuare ad occupare trionfalmente il secondo posto sul podio della maggior tassazione, battuti solo da Finlandia, Svezia, Croazia, Danimarca ed Ungheria e dalla loro modica percentuale del 23%.
Ciononostante il dibattito continua. E continua, come rileva la scrittrice e giornalista Jennifer Guerra, scontrandosi con le minimizzazioni di chi, riducendo la causa al fantoccio di un capriccio essenzialmente svuotato di ogni significazione politica, non si esime dallo sfiorare le più alte vette del retorismo, regalandoci coraggiose quanto insensate equiparazioni tra la determinazione biologica delle mestruazioni e quella delle feci. Seguendo questo ragionamento, «lo Stato dovrebbe regalare anche la carta igienica, visto che la cacca la facciamo tutti» (J. Guerra, Il corpo elettrico, Tlön, 2020). Senza toccare il — ed entrare nel — merito del tortuoso universo simbolico delle funzioni fisiologiche di base, ci limitiamo a sostenere con l’autrice che «la questione della gratuità degli assorbenti, nel mondo in cui sono le donne ad avere il ciclo, è una questione politica, così come sono politiche le ragioni secondo cui per molti uomini chiedere non tanto di avere gli assorbenti gratis, ma che almeno siano tassati meno dei tartufi, è un capriccio o un privilegio».
Period poverty ed equità mestruale
Perché l’igiene mestruale è una questione politica? Forse bisognerebbe chiederlo alle giovani che in certe aree del globo sono costrette a saltare la scuola quando mestruate perché le risorse igienico-sanitarie a loro disposizione ne trasformano il ciclo in qualcosa di ingestibile: mancanza di acqua corrente, di assorbenti, di prodotti per l’igiene intima. Stando ai rapporti Unicef, nei Paesi a basso reddito la condizione è questa in quasi la metà delle scuole. Gli stessi rapporti rilevano che più della metà delle ragazze keniote — il 54% — riscontra impedimenti nel reperire prodotti per la propria igiene mestruale. È del 10%, invece, la percentuale di ragazze che dichiarano di essersi prostituite in passato in cambio di assorbenti.
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Il ciclo mestruale è una questione politica perché legato a doppio filo con la sfera dell’autonomia femminile. In carenza di presidi igienici, condurre un’esistenza normale e in salute è pressoché impensabile. Una criticità con cui le vittime della period poverty — povertà mestruale — fanno i conti almeno una volta al mese. Se le donne delle classi meno abbienti sono costrette a rinunciare all’acquisto di assorbenti e tamponi perché il proprio reddito non glielo consente, l’accesso all’igiene mestruale, non impermeabile al determinismo sociale, diventa anche e soprattutto una questione di classe.
È per questo che l’igiene mestruale, per noi, è una questione politica e non di semplice nomenclatura. Perché «quello è il nostro sangue» (Il corpo elettrico), ma non intendiamo più offrirlo in sacrificio per nessuno. Perché arriverà un giorno in cui i nostri diritti, anziché beni di lusso, verranno finalmente chiamati con il nome che spetta loro. E sarà perché, in sacrificio, avremo offerto solo e soltanto la nostra rabbia.
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