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Un mese a Gaza

In poco più di trenta giorni gli attacchi israeliani nella striscia di Gaza hanno ucciso oltre 10.000 persone, oltre 4.000 sono bambini. E mentre nel mondo si amplifica la voce di un cessate il fuoco, Israele continua a bombardare.

5 minuti di lettura

Era il 7 ottobre quando i miliziani di Hamas oltrepassavano i confini della striscia di Gaza, entrando nel territorio israeliano per un assalto che ha visto l’uccisione di più 1.000 israeliani e il rapimento di oltre 200 ostaggi. Di lì a poco, iniziavano i bombardamenti dell’aviazione israeliana sulla striscia di Gaza, che nel corso di un mese, non si sono mai arrestati e hanno coinvolto indiscriminatamente scuole, centri residenziali e ospedali.

Ma quello che i media occidentali hanno sin da subito definito una guerra, appare dopo più di un mese come un vero e proprio massacro di una popolazione che non ha vere vie di fuga e che tenta, giorno dopo giorno, di sopravvivere a un nuovo indiscriminato attacco.

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I bombardamenti

Secondo quanto rivelato da diverse testate internazionali, tra cui Middle East Monitor, l’energia di fuoco di un mese di bombardamenti sulla striscia di Gaza (all’incirca 25.000 tonnellate di esplosivo) equivale circa a quella liberata da due esplosioni nucleari.

Sin da subito, i politici e i militari israeliani hanno affermato che lo scopo dei bombardamenti è quello di colpire i centri di potere di Hamas e i suoi tunnel sotterranei, sostenendo che l’organizzazione militare utilizzi i civili come scudo umano. Tuttavia, nessuna prova concreta è stata fornita per giustificare il bombardamento di ospedali, scuole e campi profughi.

Sia Amnesty International che Human Rights Watch hanno denunciato l’utilizzo da parte di Israele di bombe al fosforo bianco sia nella striscia di Gaza che in Libano. L’uso di quest’arma in aree con popolazione civile è illegale secondo il diritto internazionale.

Uno dei bombardamenti più feroci è quello che il 17 ottobre ha colpito l’ospedale di Al-Ahli che ha causato oltre 400 vittime. Da subito l’attacco è stato rivendicato su Twitter (con un post poi cancellato) dal portavoce digitale del governo israeliano, ma ancora oggi si dibatte sulle responsabilità della strage. Il New York Times ha smentito che il video registrato da alcune telecamere di Al Jazeera, presentato da parte dei militari israeliani e da molti media occidentali come prova schiacciante della responsabilità di una gruppo militare palestinese, possa essere dirimente in tal senso.

Anche altri ospedali sono stati colpiti dai bombardamenti israeliani. Tra questi, l‘ospedale pediatrico al-Nasser. Inoltre, secondo Al Jazeera, sin dall’inizio del conflitto sarebbero state colpite circa 25 ambulanze e più di 100 tra medici e infermieri sarebbero stati uccisi.

A essere colpite sono state anche scuole, come quella gestita dalle Nazioni Unite, situata nel campo profughi di Jabalia.

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La fuga verso sud

La parte nord della striscia di Gaza è quella geograficamente più esposta all’attacco di terra israeliano, oltre a essere la regione della striscia dove è presente la città di Gaza.

Sin dalla prima fase dell’assedio, con un ultimatum dato tramite volantini lasciati cadere sulle case, Israele ha chiesto agli abitanti della parte nord della striscia di evacuare. Tale richiesta e le successive incursioni hanno provocato oltre un milione di sfollati.

Tuttavia, Israele ha bombardato anche le strade che, inizialmente, aveva dato per sicure e che vanno verso il sud della striscia. Tra le città che ospitano il maggior numero di sfollati c’è Khan Yunis, a soli 10 chilometri dal confine con l’Egitto. Ed è proprio qui che, fuggendo insieme a suo marito, ha cercato rifugio Shouq Al Najjar, ventisettenne di Gaza City.

Raggiunta via messaggi nei momenti in cui la linea e l’elettricità a Gaza consentono l’utilizzo dei cellulari, Shouq Al Najjar ci ha raccontato di una città al collasso, senza cibo, acqua e posti letto sufficienti per gli sfollati. Poi, riferendosi al bombardamento dell’ospedale di Al-Ahli la cui responsabilità è stata spesso attribuita ai gruppi palestinesi stessi, ha aggiunto:

L’endorsement dell’informazione occidentale mi lascia senza parole. Israele aveva già minacciato il bombardamento di ospedali nei giorni precedenti e la forza distruttiva dell’esplosione è stata causata da armi di cui nessun gruppo palestinese ha disponibilità. Bambini uccisi o diventati improvvisamente orfani, madri in lutto, distruzione ovunque. Se anche sopravvivremo, come cureremo queste cicatrici?

Oggi Khan Yunis non è più sicura di altri luoghi della striscia di Gaza. Nessun luogo della striscia è esente dai bombardamenti.

I giornalisti

Nessun visto giornalistico è stato rilasciato da Israele per consentire alle testate internazionali di avviare una copertura mediatica dell’assedio. Tutte le immagini e le informazioni dirette provengono, oltre che dalle istituzioni israeliane e palestinesi o dagli operatori umanitari in contatto con le loro organizzazioni, dai giornalisti che già vivevano o lavoravano nella striscia prima del 7 ottobre 2023.

L’assenza di una maggiore copertura mediatica rende difficile avere un’informazione più nitida rispetto a quello che spesso accade. Inoltre, i sempre più frequenti blackout nelle comunicazioni, causati volontariamente dalle forze militari israeliane, rendono difficile un flusso costante e completo delle informazioni.

Nell’ultimo mese sono almeno 35 i giornalisti uccisi dai raid israeliani (tra questi rientra anche quello che il 13 ottobre ha colpito alcuni giornalisti al confine sud del Libano).

Emblematico delle difficoltà e delle sofferenze dei giornalisti che stanno coprendo la tragedia è il caso di Wael Al-Dahdouh, reporter di Al Jazeera che, il 28 ottobre, ha ricevuto mentre stava lavorando la notizia che sua moglie e i suoi due figli avevano perso la vita in un bombardamento.

Attualmente molti giornalisti palestinesi stanno coprendo il conflitto utilizzando Instagram. Tra questi, Motaz Azaiza seguito da oltre 13 milioni di utenti e che da oltre un mese mostra quotidianamente gli effetti degli attacchi indiscriminati sui civili.

Moltissime sono state, tuttavia, le denunce di censura dei contenuti relativi a quanto sta accadendo nella striscia di Gaza da parte delle piattaforme di Meta.

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Il valico di Rafah

Unico varco d’accesso con l’Egitto, il valico di Rafah è apparso sin da subito come la possibile via di fuga per i civili palestinesi. Un’ipotesi che si è trasformata presto in un miraggio sia a causa della ritrosia dell’Egitto ad accogliere migliaia di profughi sia perché, già dai primi giorni, Israele ha bombardato deliberatamente e più volte il valico.

Una prima apertura per consentire l’accesso agli aiuti umanitari c’è stata solo il 21 ottobre, lasciando passare un numero esiguo di camion con cibo, acqua e materiale sanitario che Mike Ryan, capo dell’unità emergenziale della World Health Organization, ha definito “una goccia nell’oceano” rispetto a quanto necessario.

Attualmente, secondo la Croce Rossa, il numero di camion con materiale sanitario entrato a Gaza è di 569.

A partire dal 1 novembre, il valico è stato aperto (con chiusure e successive difficoltose riaperture) a un numero limitato di stranieri e detentori di doppia cittadinanza in fuga da Gaza. Tra questi, circa 59 cittadini canadesi, oltre 200 giordani e 7 italiani. Una prima chiusura è stata disposta dopo che un’ambulanza diretta al valico è stata bombardata dalle forze militari israeliane.

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L’Italia

L’Italia è tra i 45 Paesi che sabato 28 ottobre, si sono astenuti nella votazione alla risoluzione ONU per il cessate il fuoco. A conclusione della votazione Maurizio Massari, ambasciatore italiano, ha spiegato che alla base dell’astensione c’era «l’assenza di ogni riferimento di condanna alla strage del 7 ottobre commessa dai miliziani di Hamas».

Una settimana prima la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, recatasi a Tel Aviv aveva incontrato Benjamin Netanyahu affermando che l’attacco di Hamas aveva una matrice antisemita. Poi, in un incontro con Mahmoud Abbas, presidente dell’Autorità Palestinese, aveva parlato di un diritto del popolo palestinese a uno Stato.

Il Ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale Tajani, nei primi giorni dell’assedio, si era detto sicuro della proporzionalità della reazione israeliana. L’8 novembre ha affermato che Israele fa bene a colpire Hamas, ma che il G7 è pronto ad aiutare il popolo palestinese.

Nella stessa data una nave della marina militare italiana con a bordo personale medico e materiale sanitario è partita per prestare soccorso alla popolazione palestinese. Al momento, non è ancora noto come verrà prestato il soccorso, essendo precluso ogni approdo alla striscia di Gaza.

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Gianluca Grimaldi

Napoletano di nascita, milanese d'adozione, mi occupo prevalentemente di cinema e letteratura.
Laureato in giurisprudenza, amo viaggiare e annotare, ovunque sia, i dettagli che mi restano impressi.

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