fbpx
Melanconia

Melanconia neoliberale. Per una nuova teoria degli umori ai tempi dell’era dell’accelerazione

dalla newsletter n. 45 - dicembre 2024

8 minuti di lettura

Dall’antichità classica fino al Seicento, andava di moda la teoria degli umori ipotizzata da Ippocrate, una teoria che doveva dare un’eziologia delle malattie dell’uomo attraverso l’interazione di quattro fluidi corporei chiamati umori, ovvero sangue, flemma, bile gialla e bile nera, quest’ultima definita più avanti nel tempo spleen o malinconia. Questa teoria prevedeva, inoltre, come il corpo potesse guarire da solo attraverso l’interazione con la natura, come a dire che il corpo si muove ed è influenzato dall’incedere del tempo e dall’evolversi della natura e della società.

Abbiamo ancora bisogno di una teoria degli umori? Il nostro stato di salute dipende ancora da quanto accade attorno a noi? Se pensiamo alle idee di tre pensatori e saggisti come Byung-chul Han, Mark Fisher e Cynthia Cruz, ci verrebbe da dire di sì. Tutti e tre, anche se appartenenti a generazioni diverse, sono concordi nel dire che viviamo in una società iperconnessa e iperaccelerata dove ogni prospettiva di futuro è stata cancellata, dove all’individuo si chiede di essere il più possibile prestante e di avere abnegazione nei confronti del proprio dolore e sentimenti, ma soprattutto che ci porta a una crescente angoscia dovuta alla malinconia verso ciò che non esiste più, ovvero la stabilità e la certezza del passato.

In Melanconia di classe, Cynthia Cruz parla addirittura di una cancellazione di senso di appartenenza a un determinato tipo di contesto sociale, rendendo le persone fantasmi in cerca di punti di riferimento, ma sempre più soli:

Il mondo interiore della working class è attraversato da queste e da altre contraddizioni. Finiamo per ritrovarci divisi, sdoppiati, intrappolati tra il mondo delle nostre origini e quello borghese in cui viviamo. Poiché non esiste in nessuno di quei due mondi, il soggetto proletario non ha più un luogo di appartenenza: ha abbandonato le sue origini, è arrivato sulla soglia del mondo della classe media (che gli nega l’accesso) e si ritrova a non essere né l’uno né l’altro. È uno spettro che esiste tra due mondi, una presenza inquietante.

Se leggiamo le parole di Cynthia Cruz, ci viene da dire che la melanconia sia ritornata a essere centrale nel dibattito, in quanto è uno stato di infermità che paradossalmente si rivela essere uno stato positivo di salute: se sono malato, significa che sto mettendo la mia presenza nel mondo al centro del dibattito. Esisto, creo mondi e creo idee a partire dalla mia infermità.

Questa idea del rapporto fra malattia, creazione ed evoluzione della società è tipica soprattutto di certa letteratura tedesca. In Lenz, per esempio, Gerog Büchner parla della schizofrenia del celebre drammaturgo dello Sturm und Drang per analizzare quella che era la malattia del suo tempo, la Sehnsucht, anelito e struggimento verso un mondo che, alla fine dell’Illuminismo, ha capito di essere incompleto e non più al centro del mondo. Andando avanti con gli anni, la malattia è centrale anche in Thomas Mann e Thomas Bernhard.

In L’ora greve, l’autore di Lubecca racconta di come Friedrich Schiller – mai nominato esplicitamente – riesca a creare la sua opera storica Wallenstein in pieno stato di infermità, mentre nella Montagna incantata lo stato di malattia di Hans Kastorp, Naphta e Settembrini ci fanno capire come il vecchio mondo all’indomani della Prima Guerra Mondiale sia finito e sia necessario costruirne uno nuovo. Quanto all’autore austriaco, se nel Soccombente i personaggi di Glenn Gould e Wertheimer sono descritti in termini di malattia causata dalla propria ossessione per la musica, in Perturbamento l’io narrante osserva un mondo completamente malato, figlio di una società che uscita dalla Seconda Guerra Mondiale fa fatica a fare i conti con il passato, parlando addirittura di «catastrofe intellettuale»:

“È un tema su cui insisto da sempre, caro dottore”, disse il principe. “Lo Stato che rovina tutto e gli uomini che non riescono a venire a capo di questo loro Stato e lo mandano in rovina. Mi viene in mente il termine catastrofe intellettuale, caro dottore”.

Lo stato di malattia del principe di Sarau in realtà è, dunque, uno stato di salute, in quanto, così affermando, racconta come va il mondo e attraverso le sue parole trova nuovi punti di riferimento in assenza di uno Stato che ha lasciato i suoi cittadini in balìa del destino.

Sulla perdita di punti di riferimento sociali, politici e culturali pone l’accento, per esempio, la spagnola Almudena Sanchez, che nel suo romanzo semiautobiografico Farmaco (Polidoro Editore) evidenzia l’impossibilità di un «futuro oltre questa desolazione», in quanto si rende conto di vivere nello «schifo dei giovani di oggi, la generazione di merda che siamo, la precarietà di merda, i non-stipendi di merda, l’affitto altissimo che devo pagare come se vivessi nella Silicon Valley». Sempre Sanchez si rifà al concetto di spettri malinconici di Cruz, in quanto dà come una delle tante motivazioni della sua depressione il suo essere «forestiera in terra di maiorchini», essere castigliana proveniente da Porzuna, un paese della “Spagna vuota”, un’area composta da cinque comunità autonome dove, a parte una grande città come Saragozza, per il resto regna il nulla, e dunque i fantasmi.

Una correlazione fra depressione, fantasmi e identità sottratte la si trova anche nella Valle dei fiori di Nivaq Korneliussen (Iperborea), dove sebbene l’autrice si concentri di più sui destini individuali della protagonista Maliina e di altri personaggi e ritenga che le cause della depressione e dei suicidi dei giovani groenlandesi siano più profonde, sullo sfondo lascia intendere che il difficile processo di decolonizzazione della Groenlandia abbia in fondo inciso sulla depressione dei giovani groenlandesi, condannati allo stato di spettri per una mancanza di punti di riferimento politici e culturali:

I ricercatori concludono che il fattore scatenante deve essere correlato alla luce estiva, ipotizzano che quella stessa luce che scongiura la depressione invernale possa portare al suicidio. I dati mostrano che il metabolismo della serotonina varia in base alla stagione e alla luce, e che potrebbe avere qualche influsso sui comportamenti impulsivi e aggressivi, e dunque su violenza e suicidi. Ma la luce non può essere il fattore decisivo: la luce c’è sempre stata, mentre i suicidi hanno subito un’impennata solo dopo l’epoca coloniale.

Come Nivaq Korneliussen, anche il canadese appartenente alla nazione indiana degli Ojibwe, Richard Wagamese (1955-2017), in Le stelle si spengono all’alba (La nuova frontiera) pone una correlazione fra depressione e perdita di identità dovuta all’accelerazione culturale dovuta all’urbanizzazione e alla modernità. In particolare, sia Frank che Eldon Starlight vivono una sorta di smarrimento culturale mista alla vergogna per le proprie origini (a proposito del proprio cognome, Frank dirà: «Io me lo sono sempre chiesto. Circondato com’ero da Smith, Green e compagnia bella»), in quanto le istituzioni canadesi – soprattutto la Chiesa – hanno messo in atto una campagna di cancellazione culturale che ha instillato un profondo senso di vergogna nei nativi canadesi, espresso nei due personaggi attraverso la depressione e l’abuso di droghe e alcol.

Leggendo Almudena Sanchez, Nivaq Korneliussen e Richard Wagamese giungiamo alla consapevolezza che questi tempi accelerati non soltanto ci stanno privando di una nostra identità culturale ben definita, ma anche di una prospettiva di futuro e di stabilità che fomentano il nostro stato di infermità. In entrambi i casi, tuttavia, la malattia si pone in qualche modo di creare un qualcosa di nuovo in cui tutti si riconoscono, riconoscono il proprio stato di non-esistenza e da qui partono per provare a rifondare il mondo e dare un nome al proprio disagio.

Ne sono un esempio lampante due libri pubblicati da Wojtek: Lampreht di Kazimir Kolar e Tutto finisce con me di Gabriele Esposito, dove i due protagonisti, parafrasando il titolo originale del romanzo di Kazimir Kolar, sono “voci della notte” (Glas noči in sloveno), voci di fantasmi che vengono dal buio, dai margini della società, individui che vanno incontro alla morte in un vortice ipnotico e regressivo, senza sosta, precipitando infine negli abissi della propria coscienza ma allo stesso tempo della nostra, meschina, indifferente e malata quanto la loro. Il cinismo del protagonista di Kazimir Kolar è segno di una società indifferente dove ognuno cura i propri interessi: «Tutti odiano tutto», afferma, «il lupo è un uomo per l’uomo. L’uomo è un lupo per il lupo. Lupa ex fabulo. Fabulus ex lupo. Lupare de fabulo. Fabulare de lupo».

Questa visione della società hobbesiana sfocia nel «buongiorno al nulla» del protagonista di Gabriele Esposito, che prendendo atto dell’estrema solitudine che lo costringe all’uso di farmaci per curare la sua depressione, gli fa anche capire che annullarsi costituisce a suo modo uno strumento per creare qualcosa di nuovo:

Dopo di me più nulla. Di me, in futuro, nulla. Percepisco il fatto di essere solo al mondo, solo fino all’ultimo dei miei giorni, qui, nessuno a ricordare le cose che ricordo io, nemmeno parzialmente, non c’è prole, ed è meglio così. Tutto finisce con me.

Questa idea che sottende i romanzi di Gabriele Esposito e Kazimir Kolar la si ritrova anche in Cronache della sesta estinzione di Stefano Valenti (Il Saggiatore), dove la sesta estinzione non soltanto porterebbe l’essere umano a essere l’unica forma di vita sulla terra, ma in un’epoca di estremo individualismo come quella del neoliberismo rischierebbe di restare ancora più isolato fra gli altri uomini, attuando così quanto afferma nella sua psicosi Kazimir Lampreht. Come un moderno Robinson Crusoe, anche il protagonista di Stefano Valenti è uno spettro di una working class che ormai è sparita, ma è anche colui che conduce un’esistenza nomade rinunciando alle sue radici e origini, e dunque, come i protagonisti di Almudena Sanchez, Nivaq Korneliussen e Richard Wagamese, è ancora più solo e outsider.

Come tutti i personaggi menzionati prima, il protagonista di Stefano Valenti prova anche vergogna e paura per essere in difetto di fronte a una società che gli chiede di essere prestante, ma al contempo non gli dà opportunità, e lo precipita dunque in una profonda depressione:

Guardavo al mondo che mi restituiva un’unica identità, l’identità della classe media. L’effetto era a tal punto mimetico che io stesso credevo (e l’ho creduto dall’infanzia alla tarda età matura) di essere parte dell’identità della classe media. Mi veniva rimandato il dogma che le classi non esistono, o, meglio, che non esistono più. E che quindi non esistono più nemmeno relazioni determinate da quella identità. Ero diventato un fantasma irriconoscibile tanto dalla classe media quanto dalla classe lavoratrice e mi accadeva di incontrare altri fantasmi come me, persone che vivevano nella vergogna e portavano il segreto del non appartenere a nessuna ragione e dunque di non averne alcuna.

Nel suo vagare nei boschi dell’infanzia a seguito del delirio causato dalla propria depressione e dall’effetto degli psicofarmaci, il narratore di Cronache della sesta estinzione ha trovato nell’altrove del suo delirio psichico un mondo da abitare per salvarsi dalla catastrofe depersonalizzante del neoliberismo, che non soltanto tocca il mondo del lavoro, ma anche l’ambiente. Nella sua depressione e stato di malattia, dunque, anche questo personaggio trova un suo stato di salute, e come Robinson Crusoe riesce a creare un nuovo sistema di valori a partire dal proprio sradicamento.

Alla fine di quanto scritto, cosa potrebbe essere, dunque, la melanconia neoliberale? Non è altro che uno stato di infermità causato da uno sradicamento sociale e culturale che non solo porta allo smarrimento, ma anche a una crisi all’apparenza senza via d’uscita. Pertanto, una teoria degli umori resta ancora necessaria: partendo dal nostro stato di malessere, ci si può ancora orientare in un mondo sempre più senza punti di riferimento. La depressione e lo stato di malattia ancora una volta si mostrano, dunque, uno stato positivo di salute, un modo d’essere che pone al centro del dibattito un’assenza di valori politici e culturali che ci privano di punti di riferimento e che da qui partono per creare un nuovo sistema di idee e rifondare il mondo senza lasciare nessuno indietro.


Illustrazione di Lucia Amaddeo

Questo articolo fa parte della newsletter n. 45 – dicembre 2024 di Frammenti Rivista, riservata agli abbonati al FR Club. Leggi gli altri articoli di questo numero:

Non abbiamo grandi editori alle spalle. Gli unici nostri padroni sono i lettori. Sostieni la cultura giovane, libera e indipendente: iscriviti al FR Club!

Segui Frammenti Rivista anche su Facebook e Instagram, e iscriviti alla nostra newsletter!

Alberto Paolo Palumbo

Laurea magistrale in Lingue e Letterature Europee ed Extraeuropee all'Università degli Studi di Milano con tesi in letteratura tedesca.
Sente suo quello che lo scrittore Premio Campiello Carmine Abate definisce "vivere per addizione". Nato nella provincia di Milano, figlio di genitori meridionali e amante delle lingue e delle letterature straniere: tutto questo lo rende una persona che vive più mondi e più culture, e che vuole conoscere e indagare sempre più. In poche parole: una persona ricca di sguardi e prospettive.
Crede fortemente nel fatto che la letteratura debba non solo costruire ponti per raggiungere e unire le persone, permettendo di acquisire nuovi sguardi sulla realtà, ma anche aiutare ad avere consapevolezza della propria persona e della realtà che la circonda.

Lascia un commento

Your email address will not be published.

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.