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rielezione Sergio Mattarella

Mattarella bis: storia di una rielezione travagliata

La partita del Quirinale, si sa, è sempre sottile e "tutta politica". Questa volta, forse, si è visto più del solito: ripercorriamone, a freddo, i momenti chiave.  

7 minuti di lettura

Con queste parole, giovedì 3 febbraio 2022, Sergio Mattarella ha aperto il tradizionale discorso del giuramento che spetta al Presidente della Repubblica italiana. Il secondo della sua vita, che segna la rielezione di Mattarella per un secondo mandato consecutivo alla più alta carica dello Stato:

«Il parlamento e i rappresentanti delle regioni hanno preso la loro decisione, ed è per me una nuova chiamata inattesa alla responsabilità, a cui tuttavia non posso e non ho voluto sottrarmi».

Apprezzatissimo dalle forze politiche del Parlamento (55 applausi durante il discorso), Mattarella esce dalla partita del Quirinale come il vero vincitore: figura guida, rassicurante e tenace. A differenza del suo stimatissimo predecessore Giorgio Napolitano – che con lui condivide quel “senso di responsabilità” che per entrambi ha significato una anomala rielezione al Colle –  il suo non sa di un mandato “a tempo”, per tamponare le difficoltà degli schieramenti politici, viceversa secondo la gran parte dei commentatori il suo potrebbe essere un settennato pieno. 

rielezione Sergio Mattarella
Sergio Mattarella

Le 3 parole più usate nel discorso di insediamento sono state Dignità (18 volte), Italia (14) e Paese (11). Ha parlato di PNRR, di Europa, di lavoro, di giovani – ricordando la tragica morte dello studente Lorenzo Parelli, il 18enne morto a Udine durante uno stage in una fabbrica nel contesto dell’alternanza scuola-lavoro -, della necessità di rivedere la riforma della giustizia e ha sottolineato le fragilità degli strumenti politici messi in atto durante la pandemia con qualche frecciatina a Conte (e Draghi) sull’uso eccessivo dei DPCM.

Vanno tenute unite due esigenze irrinunciabili: rispetto dei percorsi di garanzia democratica, e insieme tempestività delle decisioni. Per questo è essenziale il ruolo del Parlamento, come luogo della partecipazione e della costruzione del consenso intorno alle decisioni che si assumono. Il luogo in cui la politica riconosce, valorizza e immette nelle istituzioni ciò che di vivo emerge dalla società civile. Così come è decisivo il ruolo e lo spazio delle autonomie, il dualismo delle istituzioni, vissuto con spirito di collaborazione, come abbiamo visto nel corso dell’emergenza pandemica, rafforza la democrazia e la società.

Sergio Mattarella

La rielezione di Mattarella, tutt’altro che lineare, ci dice due cose. La prima, più evidente, che le forze politiche rappresentate dai loro 1009 grandi elettori hanno fallito l’operazione di eleggere un nuovo Capo dello Stato. La sua rielezione, per quanto rassicurante e apprezzata a livello nazionale ed internazionale, ci consegna l’immagine di una politica in crisi, incapace di convergere su un nuovo nome trasversale, di garanzia e in grado di unire il Paese, così come chiede la Costituzione. La seconda cosa che la vicenda ci racconta è che in Parlamento emergono nuovi vincitori e nuovi vinti, che guardano già alle elezioni del prossimo anno. La partita del Quirinale, si sa, è sempre sottile e “tutta politica”. Questa volta, forse, si è visto più del solito: ripercorriamo i momenti chiave.  

La rielezione di Mattarella: un cammino tortuoso

Nei giorni che hanno preceduto l’inizio delle votazioni per l’elezione del Capo dello Stato, numerosi sono stati i nomi dei candidati venuti fuori dal cilindro delle varie formazioni politiche. Il Paese intero attendeva con ansia questa votazione. Tutti si chiedevano chi potesse essere il giusto successore di un Presidente – Mattarella – a cui tutti abbiamo voluto bene. La sua serietà e la sua capacità di essere un leader morbido e deciso allo stesso tempo ci ha rassicurati in un momento politico in cui di serio e stabile c’è ben poco.
«Serve una persona che abbia la caratura morale, lo spessore e la serietà di Mattarella!», così tuonavano i partiti. «Dispiace non sia disponibile per un secondo mandato!», e ancora, «se si potesse, voteremmo Mattarella…».

Chi esplicitamente, chi in modo implicito, (quasi) tutti all’interno del Parlamento hanno accarezzato l’idea di un’elezione indolore di Mattarella. Così non è stato, perché l’attuale maggioranza è un ibrido, una compagine innaturale di partiti che mai sarebbero stati insieme in un Governo se non fosse stato necessario, se non ci fosse stato un premier come Mario Draghi, il garante, una figura tecnica in grado di tenere compatti schieramenti diversi. Ma andiamo con ordine.

Facciamo un passo indietro

Torniamo alle elezioni del 2018. La legislatura iniziata nel 2018 non ha consegnato maggioranze chiare a causa del sistema elettorale, ma soprattutto per la composizione dell’arco parlamentare per cui il bipolarismo è solo un ricordo sbiadito. Ne sono seguiti due governi presieduti da Giuseppe Conte, con due maggioranze diametralmente opposte: prima il cosiddetto governo giallo-verde; poi quello giallo-rosso. Infine, in pieno Covid e dopo il collasso del Conte bis, è arrivato il governo di Mario Draghi. I partiti, allora, si sono fatti compatti supportando il neo premier: dalla ampia maggioranza di governo è rimasta fuori solo Fratelli d’Italia.

Giuseppe Conte
Giuseppe Conte

La recente rielezione di Sergio Mattarella, e il processo di avvicinamento alla sua elezione, sono stati un momento di rottura, una sorte di meteorite sulle sicurezze politiche e sulle previsioni elettorali. Un trambusto di alleanze, con molti partiti che hanno aperto un confronto interno che potrebbe variare gli equilibri e le linee da seguire nel corso del prossimo anno “elettorale”.

Il caso Belloni e le rotture a sinistra

I dialoghi e le fughe in avanti durante i giorni di negoziazione hanno insinuato qualche dubbio nel rapporto apparentemente idilliaco tra Conte e Letta, leader di M5S e PD. La fuga in avanti sulla Presidente “donna” all’unisono con Matteo Salvini, non è stata particolarmente apprezzata a Largo del Nazzareno. Secondo alcuni commentatori, le elezioni del Presidente della Repubblica hanno riattivato un canale di dialogo chiusosi più di due anni fa tra Conte e il Leader leghista.

Non è stato solo il Partito Democratico a storcere il naso. Il nome di Elisabetta Belloni – diplomatica e funzionaria italiana, dal 2021 direttrice generale del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza – proposto implicitamente nella tarda sera del 28 gennaio e lanciato nell’arena delle elezioni quirinalizie, ha creato non pochi malumori anche all’interno del Movimento. Emblematico il tweet dell’ex capo politico e Ministro degli Esteri Luigi Di Maio dopo la proposta della Belloni come Presidente della Repubblica, che critica il metodo e accusa i leader di “bruciare nomi in modo indecoroso”.

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Si apre così la prima crisi interna dopo la nomina di Giuseppe Conte a Presidente del Movimento. Tra i grillini, si fronteggiano lo schieramento “contiano” e la pattuglia parlamentare più vicina al Ministro degli Esteri. I due protagonisti parlano di un necessario chiarimento politico, ma la data di questo confronto fatica ad arrivare. Sarebbe un brutto colpo per la base e farebbe venir meno definitivamente l’idea monolitica del Movimento.

Luigi di Maio
Luigi di Maio

Con la fuga in avanti sulla candidatura di Elisabetta Belloni, il centrosinistra – inteso come PD, Articolo Uno e M5S – che fino a quel momento si era mosso in blocco, ha visto scricchiolare parte della sua unità proprio la sera prima della riconferma di Sergio Mattarella sul colle più alto. I primi scrutini hanno visto un fronte compatto che si opponeva al tanto decantato diritto di prelazione della destra sull’indicazione del candidato o della candidata Presidente. Poi le cose si sono complicate, soprattutto in casa M5S. Tuttavia il fronte, bene o male, ha retto fino alla fine. A pagare il prezzo è la garanzia sulla tenuta dell’alleanza a sinistra da qui al 2023.

Enrico Letta

Che partita ha giocato il centrodestra?

La storia del centrodestra durante gli otto scrutini è stata caratterizzata da più bassi che alti. Il presunto diritto ad indicare il nuovo presidente ha inizialmente portato alla candidatura di Silvio Berlusconi che per settimane ha monopolizzato il dibattito sui media. Per la prima volta, si è assistito ad una campagna elettorale per il Quirinale con Berlusconi intento a chiamare, sondare e valutare una candidatura che sarebbe stata la conclusione di una carriera lunga tre decenni tra vittorie, polemiche, processi, sedie spolverate e chi più ne ha, più ne metta. L’idea ha entusiasmato l’interessato, ma ha fatto crescere le preoccupazioni di amici, familiari ed alleati dell’ex Cavaliere. Solo il giorno prima del primo scrutinio si è assistito al primo passo indietro dalla corsa al Quirinale. Da lì, un turbinio di nomi teoricamente superpartes, ma con una storia che li collocava politicamente e culturalmente a destra. Pera, Moratti e Nordio, la triade ufficiale. A questi, si sono sommati l’elogiatissimo Tajani e la Presidente del Senato Casellati.

La leader di FdI, Giorgia Meloni

E poi, al quarto giorno di votazione, la candidatura della seconda carica dello Stato, la presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati. Un disastro. La sinistra si è astenuta e alla destra sono mancati i numeri (di tanto) persino della propria area. Tutto il centrodestra ha subito una sconfitta bruciante, una morte annunciata di una candidatura poco accorta, un autosabotaggio dimostrato anche dalla presenza di decine di franchi tiratori che hanno fatto fermare i contatori a 382 voti quando ne servivano più di 505.

Da lì, l’esplosione della coalizione con Lega e FI consapevoli della necessità di un compromesso di Governo – come chiesto da Draghi e Mattarella – e FdI ferma sulle sue posizioni oltranziste, che hanno portato il gruppo guidato da Giorgia Meloni, a votare fino alla fine il proprio candidato di bandiera.

Il centrodestra è venuto meno, sciogliendosi come neve al sole. Iniziano già a circolare voci sulla possibile creazione di un “grande” centro che vada da Forza Italia a Italia Viva e Azione. E ancora, la Lega ha fatto trapelare l’idea di costruire insieme a FI un nuovo soggetto politico sul modello del Partito Repubblicano. Non si sa quanto siano credibili tali notizie, ma sicuramente sono come il sale sulle ferite di una coalizione lacerata, in cui solo il partito nazionalista e sovranista di Giorgia Meloni mantiene una posizione coerente con la propria linea politica e la sicurezza data dai sondaggi.

Siamo pronti al futuro?

È evidente: la politica italiana è più confusa di Amadeus quando deve dare i fiori ai cantanti in gara a Sanremo. La forza delle coalizioni è momentaneamente venuta meno, e ogni partito inizia a guardare al suo interno per analizzare quanto è successo nel recente passato, preparandosi a un nuovo anno in cui si giocheranno partite importanti tra amministrative, regionali e politiche. Serve capire dove si vuole andare e definire l’identità.

Ad acuire questa situazione, il discorso sulla legge elettorale che rischia di contrapporre due schieramenti che si dividono tra il maggioritario e il proporzionale. Davanti a Sergio Mattarella si prospetta un anno interessante.

Il Paese, nel mentre, attende. Ci sarebbe qualcosa di più importante a cui pensare e, forse, sarebbe opportuno prendere posizioni sulle disuguaglianze, sulle opportunità per le giovani generazioni e su una gestione quantomeno creativa delle piazze, alle quali servono risposte e non necessariamente manganellate. Servirebbe parlare di lavoro di qualità, di divario salariare, di gender gap, di sanità e di istruzione di qualità. Ci si gioca il futuro e forse non siamo pronti come pensavamo.

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Giuseppe Vito Ales

Classe 1993. Cresciuto tra le montagne di Piana degli Albanesi, sono un Arbëresh di Sicilia profondamente europeo. Ho studiato economia, relazioni internazionali ed affari europei tra Trento, Strasburgo, Bologna e Bruxelles per approdare infine a Roma. Tra le grandi passioni, la politica, l’economia internazionale e i viaggi preferibilmente con uno zaino sulle spalle e tanta voglia di camminare.
Credo che nel mondo ognuno di noi possa contribuire al miglioramento della collettività in modo singolare e specifico, proprio per questo non mi sta particolarmente simpatico chi parla per frasi fatte o per sentito dire e chi ha la malsana abitudine di parlare citando pensieri e parole d’altri. Siate creativi, ditelo a parole vostre!

Agnese Zappalà

Classe 1993. Ho studiato musica classica, storia e scienze politiche. Oggi sono giornalista pubblicista a Monza. Vicedirettrice di Frammenti Rivista. Aspirante Nora Ephron.

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