Il 19 dicembre 1996 le agenzie di stampa di tutto il mondo batterono una notizia triste, che gli amanti del cinema e di un’Italia nostalgica e allegra non avrebbero mai voluto leggere: moriva Marcello Mastroianni. In un’alba piovosa, con lo sferragliare dei primi metrò sotto la strada, uno degli attori più rappresentativi del Paese lasciava la terra e un’arte che definiva «più bella del fare l’amore», dopo averla resa più ricca, più spontanea, un po’ meno elitaria. Mastroianni moriva a Parigi, città che lo aveva accolto insieme alla compagna Anna Maria Tatò, regista e ultimo approdo di una vita costellata di amori e storie tormentate. «Adoro Parigi – amava ripetere – perché qui posso vivere come una persona qualunque». Del resto, la Francia l’aveva scelta più per discrezione che per vero amore, dopo che il primo trasferimento con Catherine Deneuve si era concluso con la lapidaria sentenza: «La nostra vita è noiosa, Marcello». In quell’appartemento di rue de Seine l’attore si era costruito un’altra vita, tra mobili art deco e sculture di Umberto Mastroianni, suo zio. Non usciva più, eppure per nessun altro come lui vien facile immaginare la morte come l’ultimo, grandioso atto, di una vita che aveva reso l’attore uomo, e non il contrario. Già la folla di paparazzi accalcata al portone suonava come l’ennesimo scherzo beffardo di Federico Fellini che tante volte aveva voluto quel volto ad incarnare il suo, come se il regista, conosciuto l’orrore di Marcello per la retorica e la mondanità, avesse voluto renderlo, per un momento, personaggio di quella Dolce Vita portata sullo schermo.
Mastroianni aveva imparato, chissà come, chissà perché, a dimenticare di essere artista, a muoversi sul palcoscenico della vita reale con semplicità, discrezione e un pizzico di pigrizia, unica pecca di un attore a tempo pieno e a tutto campo. Amava l’ironia e l’autouronia, il disincanto, la malinconia, la leggerezza. Da La dolce vita in poi, Mastroianni imparò a fuggire da quel Marcello che Anita Ekberg chiamava immersa nella Fontana di Trevi rendendolo icona e seduttore naturale, amante stanco delle donne come del suo ruolo. Con incredibile discrezione seppe sottrarsi, senza darlo a vedere, alle luci del palcoscenico mondano, in un’epoca in cui, dall’altra parte dell’Oceano, le star di Hollywood amavano compiacersi del loro successo e dei party sfavillanti. Non era falsa modestia quella che lo portava a considerarsi «un uomo assolutamente normale», con il naso troppo corto e le gambe magre; poco importava che le donne stravedessero per lui, che gli uomini comprassero gli occhiali del Guido di 8½ per tentare di assomigliarli almeno un po’. Mastroianni non si considerava bello, e trovava del tutto naturali le prodezze dei truccatori che dovevano invecchiarlo o imbruttirlo per interpretare certi personaggi che sembravano adattarsi a qualunque volto tranne che al suo. Eppure ogni volta era una scoperta, una rivelazione di incredibile bravura e immensa spontaneità. Biondo ne La decima vittima di Elio Petri, anziano e arrancante in Sostiene Pereira, ovunque Marcello era un gigante che incede imponente verso lo spettatore. Forse per questa sua naturalezza, per l’assoluta assenza di vanità superflue, tutti quanti amavano Mastroianni. Aveva dimenticato, nella vita che c’è fuori dal set, di essere ricco, bello e famoso. Fortunato, però, lo era senz’altro e questo non lo rimuoveva mai; entrato a teatro con Luchino Visconti, aveva trovato spalancate le porte del successo grazie all’incontro con Vittorio De Sica e col maestro Mario Monicelli che, nel 1958, lo aveva voluto nel ruolo del fotografo-ladro de I soliti ignoti. Una carriera costellata da successi e sodalizi famosi, come quello con la grande Sophia Loren che li vide partner d’arte e d’affetto, coppia indimenticabile e indimenticata di un cinema che oggi, purtroppo, non esiste più. Se fosse possibile indicare in ordine alfabetico i registi che scelsero Marcello si andrebbe dalla A di Michelangelo Antonioni alla Z di Valerio Zurlini, segnando una parabola artistica che agli occhi del mondo non poteva che apparire come un grande capolavoro compiuto.
Era il più adatto, Mastroianni, ad incarnare il grande cambiamento dell’Italia del boom economico, lui nato e cresciuto a Fontana Liri e venuto a Roma – Terra Promessa, luogo ancora incorrotto che gli spettatori, anti-eroi come lui, sognavano di vivere tra via Veneto e una gita sul Tevere. L’ultimo suo film (Mi ricordo, sì, io mi ricordo) lo diresse Anna Maria Tatò, desiderosa di celebrare il suo Marcello riflessivo e ancora scherzoso, intento a raccontare se stesso durante le pause di una pellicola di Manoel De Oliveira. L’attore era ammalato, stanco, ma non ne fece mai cenno, in un testamento spirituale che pure rende onore a una vita incredibile, avviata verso un compianto, seppur bellissimo tramonto. Raccontando di mezzo secolo di storia, di Italia spensierata e meno nevrotica, Mastroianni apriva il sipario sul palcoscenico del suo mondo, dando la possibilità di ascoltarlo con emozione e un leggero groppo in gola. Voltatosi a guardare l’orizzonte che sfugge, lanciava poi il suo ultimo messaggio, un’incredibile, piccola riflessione con cui, piace pensare, avrà forse concluso la sua vita: «Da giovani, quando si monta a cavallo per compiere questa cavalcata, si pensa che sarà un viaggio che non avrà mai fine, lunghissimo! E poi invece, raggiunta una certa età, ci si accorge che questo prossimo villaggio non era molto lontano; che veramente è stata una cavalcata breve, brevissima! La vita sì, ci si accorge a una certà età che è passata così, come…biin! E il villaggio è lì, vicino».
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