Roma, anni Sessanta dell’Ottocento. L’Europa è stata travolta da una tempesta di cambiamenti che hanno sfiorato in continuazione anche la Città Eterna e il potere temporale dei papi, inchiodati al trono di Pietro da secoli e quanto mai decisi a rimanervi. E se ogni potere degno di tale nome ha bisogno di farsi rispettare, monopolizzando la violenza, i monarchi assoluti dello Stato pontificio non facevano eccezione.
Esercitare la giustizia ha significato per secoli (e significa ancora, in troppi luoghi del mondo) includere la pena di morte nel proprio sistema giuridico, specialmente per reati legati al tradimento o per soddisfare la sete di vendetta di fronte a crimini particolarmente impattanti sull’etica delle folle. L’influenza del pensiero illuminista sulle corti e sull’opinione pubblica aveva portato ad abolire la pena di morte nel Granducato di Toscana, primo al mondo, solo nel 1786.
Nella legislazione dello Stato della Chiesa, la pena di morte rimase in vigore fino al 1870, quando i suoi territori passarono nelle mani del Regno Sabaudo, sancendo di fatto la fine di quell’entità che aveva governato l’Italia centrale per secoli. Si concludeva così una sorta di infame tradizione, di trasmissione di un know how della morte per mano del potere costituito, che da lì avrebbe preso strade meno battute ma forse ancora più subdole.
Il mondo cattolico legittimava serenamente la morte per mano della giustizia e i boia erano per certi versi addirittura protetti, in quanto esecutori della volontà divina – passata naturalmente tramite un giudice. Sul piano teologico la questione era stata risolta già nei primi secoli di vita del cristianesimo, quando i padri della Chiesa avevano stabilito che, nella sua azione omicida, il boia non trasgredisse comunque il quinto comandamento, proprio perché agiva come rappresentante di un’autorità superiore, di una giustizia divina e indiscutibile (non che la Chiesa si sia fatta molti scrupoli a riguardo nel corso della sua storia, anche con giustificazioni un po’ meno convincenti).
Come spiega lo storico Adriano Prosperi in Delitto e perdono. La pena di morte nell’orizzonte mentale dell’Europa cristiana (2013), dunque, «nel sistema cattolico il boia divenne un buon cristiano». Proprio per questo torniamo all’inizio del nostro racconto, per concentrarci su un anziano di nome Giovanni Battista Bugatti, che attraversa il rione in cui abita, antistante Piazza San Pietro, per recarsi a confessarsi. A quei tempi il rione meritava il suo nome di Borgo, perché era un dedalo di stradine brulicanti di vita più o meno onesta (in seguito ai Patti Lateranensi del 1929 il fascismo e la Chiesa collaboreranno per sventrare il quartiere e aprire quella che oggi è la Via della Conciliazione).
Nel 1864 Borgo non ha ancora perso la sua natura quasi misteriosa, e Giovanni Battista Bugatti ama passeggiarvi all’alba diretto a confessarsi nelle giornate in cui deve compiere il dovere in nome di Sua Santità. Ha più di ottant’anni, è al termine di una carriera lunghissima ma per nulla gloriosa: lo chiamano Mastro Titta, e da ben sessantotto anni, fin dal 22 marzo 1796, è il boia dello Stato vaticano. La sua lunghissima esperienza non fa di lui una celebrità amata dalla popolazione: non può vivere in centro a Roma, a sinistra del Tevere, e può attraversare i ponti che vi conducono solo per svolgere il suo macabro compito; tra un’esecuzione e l’altra arrotonda lo stipendio aggiustando e verniciando ombrelli in una piccola bottega. Nato nel 1779, Mastro Titta ha cominciato il mestiere a soli diciassette anni, arrivando a servire ben sei pontefici (Pio VI, Pio VII, Leone XII, Pio VIII, Gregorio XVI, fino a Pio IX). Nemmeno la breve parentesi di dominio francese, tra 1798 e 1799, aveva interrotto il suo operato.
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Forse Mastro Titta sa che quella del giugno 1864 sarà la sua ultima esecuzione, e che presto lascerà il posto a qualcuno di più giovane per ritirarsi con un’ottima pensione, morendo cinque anni dopo. Non possiamo sapere cosa gli passasse per la testa, né come vivesse questo ruolo. Ma è interessante tenere in considerazione che prendesse nota di ogni esecuzione sul suo taccuino (poi passato alle stampe nel 1886), con la metodicità di un ragioniere, includendo le ragioni della condanna. Non lavorava solo nella capitale, ma si spostava in tutto il regno a portare la sua arte. Sulle menti ottocentesche questo tipo di personaggi faceva molta presa, e qualcuno arrivò anche a inventarsi una sua autobiografia dettagliata, diventata un piccolo successo letterario nel 1891. Non mancano alcuni sonetti scritti da Giuseppe Gioacchino Belli, che riuscì ad assistere ad alcune esecuzioni. Il nostro Giovanni Battista è persino degno di una tappa nei vari giri turistici notturni a caccia di fantasmi che battono le strade delle capitali (pare che si aggiri tra Ponte Sant’Angelo e Piazza del Popolo).
Figure come Mastro Titta sono state numerose nella storia dell’umanità. Sentir parlare ancora di pena di morte fa rabbrividire anche perché è un elemento ancora vivo nel nostro inconscio collettivo e ci rendiamo conto che è passato troppo poco dalla sua abolizione dalle nostre parti: il Codice penale italiano la abolì nel 1889, per poi riammetterla durante il ventennio fascista.
Neanche qui nella cara vecchia Europa siamo al sicuro. Il fatto che il sistema-stato possa uccidere volontariamente fa paura perché ognuno di noi, in modo più o meno passivo e critico, accetta di viverci nel momento in cui accetta di vivere in società. Per l’ennesima volta, anche di fronte a fatti di cronaca rilevanti e recenti, dobbiamo chiederci «chi controlla il controllore?».
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