Sono pochi gli artisti che hanno saputo raccontare il male e le sue oscure sfumature come Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio (Milano, 29 settembre 1571 – Porto Ercole, 18 luglio 1610). Il pittore ha saputo conferire alle sue tele una dimensione spettrale e allo stesso tempo universale che attraverso il racconto della violenza affascina e stravolge il suo osservatore. Il dipinto Martirio di sant’Orsola (1610) rappresenta proprio il culmine di un travaglio umano e artistico dai toni noir dove l’oscurità della preparazione prende il sopravvento sulla luce e sulle forme.
L’opera fu commissionata dal banchiere genovese Marcantonio Doria, ed è conservata oggi presso la Galleria d’Italia del gruppo Intesa Sanpaolo di Palazzo Zevallos a Napoli ed è considerata l’ultima opera di Caravaggio. Le figure, definite solo da poche pennellate di abbozzo, sono letteralmente inghiottite dal fondo, mentre i rari raggi di luce che a fatica affiorano sulla scena evidenziano il panneggio sanguigno e la violenza dei volti dei protagonisti.
Il racconto dietro al dipinto
La tela racconta con orrore e moderna dinamicità la vicenda del martirio della vergine bretone Orsola, segretamente consacrata a Dio, ambientato a Colonia e contenuto anche nel testo della Legenda Aurea di Jacopo da Varazze, risalente al XIII secolo.
Durante il viaggio di ritorno in patria da Roma con undicimila compagne vergini, Orsola viene fermata alle porte della città di Colonia che nel frattempo era stata conquistata da Attila. Il Re degli Unni fa ferocemente trucidare dai suoi le undicimila compagne, risparmiando Orsola, di cui si era invaghito.
«Martirio di Sant’Orsola» del Caravaggio: analisi dell’opera
Il Martirio di Sant’Orsola rappresenta il tragico momento in cui, al rifiuto della giovane, Attila si avventa su di lei, trafiggendola con una freccia e dandole quindi la morte. La scelta del soggetto è in questo caso legata alla vicenda della figliastra di Marcantonio Doria, Anna Grimaldi, diventata suora, nel convento napoletano di Sant’Andrea delle Dame, col nome di Orsola.
Da sinistra, Attila, raffigurato con abiti secenteschi, sembra gridare di rabbia e di dolore stringendo in pugno l’arco mortale, mentre Orsola, rivolta su se stessa, osserva l’arma e le prime gocce di sangue sgorgare dal suo petto. Il colore perlaceo della sua pelle, diverso da quello di tutti gli altri personaggi, prelude già alla sua triste ed imminente morte.
Tra i tre barbari presenti sulla scena, scorgiamo il volto reclinato dolorante di un autoritratto che Caravaggio fa di se stesso, come a subire la violenza del colpo insieme alla sua eroina.
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Il supporto del Martirio di Sant’Orsola è costituito da un’unica grande pezza di tela cui fu aggiunta successivamente una striscia lungo il margine superiore. La preparazione è di tonalità bruno-aranciata ed è lasciata a vista in alcuni punti come la spalla sinistra dell’arciere e sulla guancia della santa. La composizione è abbozzata con pennellate di bianco di piombo per l’armatura del carnefice, o rossastre per profilo dell’orecchio del personaggio a destra, orecchio che era spesso utilizzato da Caravaggio come punto di riferimento per composizione.
Come si era già visto in opere del calibro di Giuditta e Oloferne (1597) e Salomè con la testa del Battista (1607), Caravaggio è geniale nel raccontare con un tocco inconfondibile una scena drammatica e teatrale, tipica dello stile barocco e che segnerà un momento di passaggio da cui la storia e gli artisti successivi non potranno più prescindere.
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