Noi italiani possediamo un’innata e disinvolta capacità nel relegare all’oblio scrittori che meriterebbero più rispetto e meno occhielli ridicoli sui libri di testo. La nostra scuola ha poi un merito tutto particolare, che è quello di dedicare mesi ad autori arcinoti dimenticandosi, per mancanza di tempo o voglia, di opere che un tempo avrebbero fatto il vanto della nostra letteratura se solo non fossero capitate in mezzo a divisioni scellerate e arbitrarie, con il romanticismo intervallato dal verismo e poi ripreso in forme distruttive dal decadentismo. È così che personalità come quella di Antonio Fogazzaro hanno finito per essere schiacciate tra il peso di un gigante siciliano dal nome di Giovanni Verga e il Vate di Pescara Gabriele D’Annunzio. Non c’è spazio per lui nelle antologie scolastiche, nessuno punta mai sul nero del suo nome nella Roulette folkloristica del toto tema pre-maturità.
Mai amato dalla critica nonostante la simpatica annotazione di François Mauriac sui suoi Bloc-Notes («Gli italiani sorridono quando io parlo del mio caro Fogazzaro»), lo scrittore vicentino ha avuto il destino beffardo di trovarsi appiccicata l’etichetta decadente senza rientrare nei margini forzati di una corrente tracciata arbitrariamente e, per aggiungere canzonatura alla beffa, anche la splendida sorte di vedere il proprio nome legato a quella filastrocca ingenua e infantile del suo capolavoro Piccolo mondo antico: «Ombretta sdegnosa – del Missipipì – non far la ritrosa – ma baciami qui».
Nessuno ricorda Fogazzaro per quel bellissimo romanzo dal sapore gotico nostrano che è Malombra. Nessuno (o quasi) ha avuto la fortuna di trovare un insegnante di letteratura che invece di proporre per l’ennesima volta Il Piacere di D’Annunzio abbia alzato la posta ponendo sul tavolo la storia di Corrado Silla e la marchesina Marina. Sarà per quell’incapacità di collocare entro delimitazioni fisse la vena dell’autore, sarà perché di un romanzo che ha – parola di Fogazzaro – un «potere malefico sul lettore» non si ha la voglia né il coraggio di sondare il fondo, figuriamoci pretendere che dei diciottenni lo leggano apprezzandolo. Eppure riscoprirlo sarebbe un bene quasi necessario, forse il miglior punto di partenza per guardare al di là del già noto ai più, oltre la palizzata dello scolasticamente imposto, lontano eppur vicino a quei caratteri dominanti che tanto piace enumerare per riempire lo studente di nozioni a compartimenti stagni.
Perché qui c’è molto più di quel che si può cogliere a una prima lettura, c’è l’essenza della decadenza intesa come attrazione che il male esercita, il cupio dissolvi e il gorgo in cui la coscienza si annulla. L’inetto che paga con la sua vita la scelta del non saper scegliere e la decisione dell’alternativa peggiore per puro istinto di morte, è tratteggiato con molta più dovizia qui che altrove, prima di Zeno Cosini, prima di Mattia Pascal. E Marina di Malombra, bella di una bellezza fatale, tormentata da fantasmi e demoni che trascinano verso l’abisso se stessa e l’uomo che ne è ossessionato è, ancor più di Elena Muti, femme fatale voluttuosa e sensuale, con una spinta all’autodistruzione e alla degradazione che stanno fra gli echi della Scapigliatura e i presentimenti del Simbolismo. E questo, in tal senso, fa di lei e del romanzo tutto un’opera essenzialmente moderna.
Pubblicato nel 1881, lo stesso anno dei Malavoglia, Malombra trae la forza del suo modernismo dal proprio carattere di opera autonoma, che è decadente solo per necessità, allorché conserva in sé il rifiuto di una qualsiasi panacea, di una soluzione al problema del male. Qui c’è chi si salva e chi no, senza intenti pedagogici e spiegazioni d’ordine metafisico. Marina è moderna perché ha in sé una fragilità nervosa e una frustrazione disperata che la rendono simile a quelle donne che oggi non hanno la forza di salvarsi, conducendo nel baratro chi provi ad aiutarle nel loro destino. Corrado è moderno perché anticipa e esemplifica tutte quelle caratteristiche dei tipi umani novecenteschi modelli da psicoanalisi. Ma soprattutto moderno è il montaggio che Fogazzaro fa della e nella sua opera, con un’abilità quasi cinematografica che permette di passare dall’esterno all’interno del Palazzo del conte Cesare d’Ormengo perdonando persino l’indugio eccessivamente antropomorfizzato sugli effetti delle anime sulla natura, con il parallelismo tra tempeste sul lago e tempeste di cuore.
C’è in Fogazzaro una tensione del tutto inedita per il tempo in cui opera, con il prevalere di sfumature torbide e inquietanti che altro non fanno se non aprire la strada alla sensibilità quasi mortifera del simbolismo. Lo sfarzo drammatico dell’atto finale compiuto dalla marchesina Marina è anticipato dal profumo di fiori che odora di morte, dalla musica ipnotica del pianoforte che suona ogni sera, dai bagliori notturni che rendono ancor più fatale la sua bellezza distruttrice. E tutto questo spalanca la porta ai sentieri dell’inconscio, dove Marina può diventare Cecilia in una sorta di desiderio di fuga da se stessa per trovare una pace che lei sa – e vorrà – di non desiderare. In Malombra di Fogazzaro c’è Sigmund Freud prima di James Joyce e Italo Svevo, ci sono I fiori del male baudelairiani da poco interiorizzati. Qui la malattia romantica intesa come malattia dell’anima cede il passo a quella della mente, con meccanismi del rimosso messi a nudo forse rozzamente, ma in maniera senza dubbio stupefacente per l’epoca. È il modernismo fogazzariano, la grande qualità di uno scrittore dimenticato in patria ma realmente degno di rientrare al più presto nel Pantheon dei grandi che furono e che, ancora oggi, continuano a essere.
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