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Male Nostrum: quale futuro per la democrazia?

5 minuti di lettura
di Susanna Causarano
Lunedì 16 Febbraio 2015 alle ore 18 nella sala lauree della facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Milano si è tenuta la conferenza Male Nostrum – A chi conviene l’esportazione della democrazia in Libia? organizzata dal Club PortoFranco, club socialista e riformista di Milano. Sono intervenuti come relatori, coordinati da Danilo Aprigliano membro del Club PortoFranco, Lia Quartapelle, deputata in Commissione Esteri del Partito Democratico; Bobo Craxi, Sottosegretario agli Affari esteri dal 2006 al 2008; Michele Achilli, Presidente Commissione Esteri Senato 1987-1992; Ilaria Tremolada, Ricercatrice dell’Università degli Studi di Milano esperta di Italia del Dopoguerra.  Lo scopo della serata era fare chiarezza sull’intricata questione libica, divenuta esplosiva dopo la caduta di Gheddafi e il contagio delle “Primavere Arabe” nel 2011. Fare chiarezza non solo da un punto di vista storico, ma anche economico, a volte con argomenti sensazionali.

Il primo intervento è stato affidato alla dottoressa Tremolada ed è consistito nella presentazione del suo ultimo libro, Nel mare che ci unisce (Mimesis), un saggio storico sulla situazione della Libia e dei paesi entrati in contatto con essa. Si tratta del frutto di una ricerca nei diversi archivi storici italiani, che ha permesso di costruire un quadro delle vicende libiche, in relazione alla stretta connessione che da sempre la Libia ha avuto con l’Italia (specialmente dal dopoguerra in poi). “Anzitutto – ha esordito Tremolada – i rapporti derivano dalle nostre due espansioni coloniali, prima con Giolitti e successivamente con il regime fascista, ma il tentativo di fare della Libia una colonia fallì. In particolare, i fascisti non scoprirono le potenzialità energetiche della Libia: solo a partire dagli anni ’50 vennero scoperti i primi ricchi giacimenti di petrolio”. La crisi di Suez del ’56 rese ancora più evidente l’importanza strategica della Libia, unico paese grande esportatore di petrolio ad ovest del canale. Si inserisce qui la politica energetica guidata da Mattei, che strinse accordi con i paesi nordafricani. Insomma, i rapporti iniziarono ad intensificarsi nuovamente, questa volta basati su interessi energetici, dalla fine del periodo coloniale. Nel ’69 con la salita al potere di Gheddafi si aprì una fase nuova, inizialmente molto nazionalista, negli anni ’70 infatti agli italiani in Libia furono confiscati i beni e molti di loro furono costretti a ritornare in patria. Fino all’accordo con Silvio Berlusconi del 2008, Gheddafi continuò a chiedere all’Italia il risarcimento per i danni del colonialismo. La Libia grazie al regime di Gheddafi rimase stabile ed i fondamentalisti erano tenuti a bada, ma nel 2011 l’equilibrio si frantumò con la spedizione militare aerea guidata dalla Francia di Sarkozy, che prese l’iniziativa in seguito alla protesta di piazza a Bengasi (in ricordo del massacro nel carcere di Abu Slim a Tripoli del 1996) in seguito alla quale la Libia si spaccò in due tronconi: la Tripolitania (che rimase sotto Gheddafi) e la Cirenaica (divenuta roccaforte degli insorti).
Questo cenno storico è servito, oltre che alla miglior comprensione dell’articolo stesso, ad aprire la strada agli interventi successivi. In particolare Michele Achilli si è riallacciato alla questione dei rapporti con l’Occidente, parlando di “zoppo tentativo di far apparire come liberazione, una missione di “pace”, offuscata sotto la bandiera NATO, ma che in realtà nasconde ben altri interessi”. Che le primavere arabe fossero solo uno specchietto per le allodole è risaputo; un po’ meno nota forse è la situazione geografica della Libia: il ministro Gentiloni ha asserito che, in caso di intervento, verranno mandate truppe solo sulle coste, purtroppo però sei milioni e mezzo di abitanti risiedono principalmente lungo la costa mentre il resto è deserto, quindi il danno non sarebbe affatto minore. La deputata Quartapelle insiste su un intervento in ottica pacifica ed europeista e vede irrimandabile la spesa per la protezione internazionale, troppo a lungo procrastinata a causa di questioni interne. Quartapelle sottolinea anche il rischio di contagio dell’instabilità agli stati limitrofi, rievocando la vicenda somala, e la situazione degli stati confinanti con la Somalia, che si sono fatti carico della questione. “L’incertezza lascia spazio ad iniziative altrui, meglio agire come Europa, piuttosto che delegare a locali o esterni, non sempre d’accordo con la nostra agenda”.
Già ma chi sono questi “altri”? Achilli ha qualche idea. Afferma che il generale Haftar, fedele di Gheddafi, ha sistemato i suoi aerei grazie a Putin. In un’intervista Haftar aveva dichiarato che dell’Occidente non bisognava fidarsi, che lui stesso aveva avuto rapporti con la CIA, ma la situazione era cambiata e “di quelli non ci si può fidare”. Bobo Craxi, senza mezzi termini, dice che l’anima della rivolta fondamentalista sono gli stessi occidentali ai quali dovremmo affidarci. Parla di finanziamenti ai ribelli da parte di grossi gruppi, come Shell, che mirano a sostituire Eni; del sogno anglosassone di ricreare un nuovo impero ottomano, con USA e Inghilterra come principali egemoni.
I temi sono tanti e servirebbe ben più di una conferenza per approfondirli. Ma non posso negare di essermi per un attimo fermata a pensare alla storia che ritorna; i due blocchi (Usa e Russia) che si fronteggiano, senza contare la Cina. Non ho le conoscenze storiche e geopolitiche sufficienti per poter fare un’analisi strutturale e formulare un giudizio sul tema. Certo è che, parafrasando un noto politico della prima repubblica, “la situazione è un po’ più complessa”. Craxi continua, convinto che il mondo occidentale potrebbe fare qualcosa di buono solo se avesse un’unità di interessi tra Europa e Usa, ma così non è. Convinto che se i fondamentalisti alle elezioni sono una minoranza trascurabile, il loro potere e e le loro armi arrivano da altro. Achilli fa notare che in un paese che conta 140 tribù diverse, non è possibile parlare di democrazia come se ci stessimo riferendo ad un qualsiasi stato occidentale; è necessario che la situazione si risolva tra loro.                              
“In Libia – continua Achilli – ci sono due parlamenti, uno eletto dopo la caduta di Gheddafi, l’altro provvisorio. Nel 2011 sono stati scelti alcuni notabili del paese per guidare la popolazione, mentre i derelitti hanno ripiegato sui fondamentalisti, creando così una massa di arrabbiati, che Gheddafi era riuscito, bene o male, a contenere. Lo stesso discorso che valse per l’Iraq. Gli americani hanno distrutto la stabilità che si manteneva sotto Saddam Hussein”. L’ISIS recluta facendo leva sui capoccia locali che spingono giovani ed ex-carcerati ad unirsi alla Jihad, arma i suoi miliziani, ma non li addestra. In Libia non ci sono soldati mercenari strapagati senza nome e grado capaci di essere vere e proprie macchine da guerra. Ci sono giovani disperati che credono di inseguire una passione, malata certo, ma non per questo meno dirompente, combattendo una guerra santa. Purtroppo sono anche loro vittime; vittime di un sistema che, al netto di tutti i discorsi economici e geopolitici, ha sacrificato ideali come vita e libertà, nel nome di un conflitto continuo, senza dichiarazioni, armistizi o paci. 
Susanna Causarano                                                                                                                                                                                                                         

Redazione

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