Mentre la sala del Teatro Franco Parenti di Milano si riempie, lei è già lì, figura eterea e immobile, Sonia Bergamasco, che si staglia su un fondale neutro e una scena totalmente spoglia. Dopo il successo de Il Ballo, affronta ancora un testo letterario, ma questa volta l’impresa è ancora più ardua se possibile, perché si tratta del racconto-capolavoro Il trentesimo anno (1961) della scrittrice austriaca Ingeborg Bachmann (1926-1973). Anima nomade e tormentata, imbevuta di studi filosofici (Martin Heidegger e Ludwig Wittgenstein i suoi numi tutelari), appartiene a quella stagione di intellettuali che fanno i conti con i fantasmi della Storia (il nazismo e l’orrore dei lager). Tale “cognizione del dolore” si traduce in sperimentazioni linguistiche e di genere (la Bachmann è raffinata poetessa e maestra di stile in racconti e romanzi), vertiginose esplorazioni dell’interiorità che oscillano sull’orlo dell’abisso.
La Bergamasco, all’interno della sua ricerca delle relazioni fra musica e parola, aggiunge ora questo tassello al suo dialogo a distanza con l’amata autrice, iniziato già alcuni anni fa. Non è però una semplice lettura scenica, bensì un’immersione nella vivida lingua della Bachmann, come si intuisce da alcuni dettagli.
L’attrice pare statica, ritta al centro della scena in un lungo abito bianco, una neutralità cromatica adatta a porre in risalto la parola. Scalza, si erge davanti a un leggio, né seduta né in piedi, ma poggiata su un alto sedile, come in equilibrio precario. In compenso le braccia tracciano danze continue nell’aria e il viso si tende concentrato, si apre in urli di sofferenza, deformato dal dolore o rigato di lacrime. Tale costrizione fisica quasi beckettiana è funzionale al risalto di due “spazialità”. Anzitutto, il paesaggio sonoro disegnato dalla voce, incanalata attraverso pause, picchi di accelerazione, scalate tonali, sinuosi ritorni e allitterazioni, una studiata vocalità che trasforma il testo in architettura musicale. In secondo luogo, il testo nella sua fisicità diventa elemento essenziale di questa partitura drammaturgica. Le pagine sul leggio sono il supporto materiale da cui sgorgano le parole, ma basta un piccolo cenno e possono “diventare” altro: ventaglio, giornale, superficie del mare, neve. La voce dice la pagina e la pagina a sua volta sembra prendere vita grazie alla voce e alla magica alchimia del teatro.
Impeccabile la Bergamasco, impietosa e sublime la Bachmann, anche se la tramatura tragica lascia intravvedere questa volta spiragli di possibilità e di riattivazione, se non per una nuova fase, almeno per una più feconda consapevolezza.
Il complesso racconto della Bachmann, in continuo slittamento fra la prima e la terza persona, traccia la vita interiore del protagonista che si dispiega durante un anno. Pretesto per il suo dilemma irrisolto è il compimento del trentesimo anno, un traguardo simbolico che lo pone sulla via delle scelte mature e delle responsabilità, ma rischia di sprofondarlo in una crisi di identità. Questo «io, fascio di riflessi, io impenetrabile e fatto di silenzi», comincia a pensare alla duplice direzionalità del tempo, che non è più un tutto indifferenziato né un ventaglio di infinite occasioni.
Di fronte ora egli ha l’orizzonte del futuro che sta per acquisire una forma, segnato dalla seduzione paurosa di diventare semplice rotella negli ingranaggi della società; dietro di sé scopre distesa la rete della memoria, «necessità dolorosa». Inquieto e straziato dal suo male di vivere, viaggia fra Roma, Venezia, Vienna e ancora Roma. Assapora l’esaltazione dell’ebbrezza, ama, cerca rifugio nella bellezza, torna nel suo «piccolo putrefatto paese» per guardarlo a distanza. Sembra risucchiato dal dubbio, oscilla fra le aspirazioni a un nuovo mondo, fondato su una «nuova lingua», e l’idea che la morte sia «l’unica salvezza possibile contro quell’atroce offesa che è la vita».
Totalmente disilluso, sembra giunto sull’orlo dell’abisso, quand’ecco un turn-point: coinvolto in un incidente stradale, respira da vicino l’odore della morte. Dopo alcuni mesi di convalescenza, la primavera gli porterà una rivelazione, che si compie con la scoperta del primo capello bianco, prova tangibile e fisica della vita, che procede al di là delle gelide astrazioni intellettualistiche. «Ma io vivo! […] Ti dico: alzati e cammina! Non hai un solo osso rotto». Intanto la Bergamasco sfoglia all’indietro le pagine del testo, come a indicare che tutto ora acquista un senso. «La speranza è una stella spenta» recita una poesia della Bachmann, eppure continua ad emettere fievoli bagliori, e intanto scorrono le pagine del tempo concreto e vissuto per ognuno di noi.
Il trentesimo anno
di Ingeborg Bachmann
con Sonia Bergamasco
Teatro Franco Parenti, Milano
15-27 novembre 2016