Il 10 febbraio 1673 andava in scena nel Palais-Royal – sede della Compagnia del Re – Il malato immaginario di Molière. Il commediografo avrebbe tanto desiderato rappresentarla a Corte, ma alla fine ebbe la meglio Giovanbattista Lulli e la sua musica. Luigi XIV infatti non nascondeva la sua predilezione per la musica e il balletto più che per il teatro di prosa. È dunque evidente il motivo per cui nell’opera di Molière ci sono ben tre intermezzi di ballo e musica.
La presenza di Giovanbattista Lulli influenzò grandemente la stesura dell’opera: nel 1672 il re emanò un decreto per cui in Francia nessuno era autorizzato a tenere in scena più di sei cantanti e più di dodici strumenti, se non Giovanbattista Lulli. In pratica quest’ultimo teneva il monopolio della musica dal vivo.
Un’opera che piacesse al re
Molière con tali premesse cerca di scrivere un’opera da presentare a Corte per il carnevale del 1673. Costruisce una struttura drammatica seguendo le preferenze del sovrano: inserisce una serie di situazioni tipiche del teatro tradizionale e le riveste di tematiche che stimolano la sua vena comica come la medicina, i medici e i malati.
Nonostante tutti i suoi sforzi, lo spettacolo non andò in scena a Corte. Il 17 Febbraio 1673 Molière stava male, ma decise di andare in scena lo stesso. La sera di quella replica ebbe un forte attacco di tosse; la sua salute era sempre stata cagionevole. Subito dopo lo spettacolo l’autore-attore venne accompagnato a casa, dove morì poche ore dopo. Questa storia è quella che forse ha reso più famosa l’opera.
La trama
Il malato immaginario ha una struttura piuttosto semplice: Argante, il malato immaginario, ha una figlia, Angelica, la quale è innamorata di Cleante. Il padre però vorrebbe darla in sposa a Tommaso Diafoirus, figlio del Dottor Diafoirus, da cui ha anche ereditato la professione. Argante ha anche un altro medico (Purgone) e farmacista (signor Fleurant) che consulta costantemente.
Incastrati in tutte le stranezze del malato immaginario ci sono Beraldo, suo fratello, e Tonina, la cameriera. A completare la famiglia ci sono Luigina, figlia di Argante e sorella di Angelica, e Belina, seconda moglie che si rivelerà solo interessata al denaro del marito.
In tre atti, incorniciati da tre intermezzi musicali, si risolve la vicenda: Argante vuole spingere Angelica a sposare Tommaso Diafoirus, la ragazza si dispera. Cleante si finge insegnante di musica di lei per provare a raccontare la loro storia tramite una canzone, invano. Tonina escogita un piano e convince Cleante a fingersi morto per vedere chi prova dei sentimenti sinceri nei suoi confronti. Belina rivela le sue vere intenzioni e Angelica e Cleante si dimostrano amorevoli figlia e genero. Come ultimo escamotage per liberarsi dell’ultimo nodo cruciale della trama Tonina si traveste da medico e propone delle cure evidentemente nocive al paziente, Beraldo le regge il gioco. Infine è lo stesso Beraldo che propone ad Argante di laurearsi medico in modo da non dover più necessitare di pareri esterni.
Una via di mezzo
L’intreccio – come vediamo – non è dei più complessi, ciò che cambia profondamente l’andamento del testo è il carattere del protagonista. Costui è un malato che ha paura di essere malato e le situazioni comiche si presentano da sole senza neanche che l’autore si sforzi. Luigi Lunari nella sua prefazione all’opera analizza come essa non contenga elementi farseschi potenti, ad esempio una presenza più attiva di Cleante e commenti meno pleonastici di Tommaso a Tonina, ma nemmeno approfondimenti verso una commedia più realistica.
L’ultimo Molière sembra potersi spingere verso risvolti quasi tragici all’interno della riflessione sulla medicina del suo tempo, ma rimane sulla superficie. Propone una piccola analisi rispetto al rapporto del Malato immaginario con la nuova medicina, ma lascia che il personaggio rimanga tale, senza portarlo a esempio di uomini contemporanei all’autore. Nonostante ciò, ci è comunque possibile fare una riflessione intorno al tema.
La realtà che si insinua
Come abbiamo visto, Molière scrive un’opera a metà tra la pura farsa e una commedia realistica, creando un genere ibrido in cui si intravedono scintille di una critica alla contemporaneità. Ci sono dei tratti quasi cupi all’interno del testo: «una visione del mondo di un uomo che ha smarrito nelle delusioni la fiducia in se stesso e nei propri simili, e la stessa voglia di vivere» (Luigi Lunari).
È proprio quest’ultimo aspetto che ci permette di analizzare il rapporto con la salute e la medicina di quel tempo: il testo è un documento che testimonia la situazione interiore di Molière nel suo ultimo anno di vita.
I medici e la medicina
È nota l’antipatia di Molière per i medici, e sono evidenti nelle sue opere le irresistibili occasioni satiriche che il personaggio del medico riusciva a suggerirgli, dal Medico volante al Medico suo malgrado, dal Signore di Pourceaugnac a quest’ultima sua fatica, nella quale egli pare affrontare seriamente il problema, per offrire – nel dialogo tra Argante e Beraldo – l’interpretazione autentica del proprio pensiero.
Luigi Lunari nell’introduzione all’opera, BUR 1996
Molière, nel dialogo tra i due fratelli mette a confronto i possibili rapporti, diametralmente opposti, che si possono avere con la medicina: la fiducia completa di Argante o il rifiuto di Beraldo. L’atteggiamento di quest’ultimo non è da leggersi come negativo per partito preso: dice Lunari, «Se è vero che la laurea di Argante ricalca con fedeltà parodistica le cerimonie descritte dagli Statuti della Facoltà di Medicina di Parigi, apparsi nel 1660, è chiaro che i lati ridicoli non mancavano nel mondo ufficiale della medicina».
C’è dunque una base anche storica che traspare nell’astio di Beraldo nei confronti della medicina, ma non c’è solo la critica ai costumi della Facoltà, egli solleva anche delle questioni che ancora oggi possono interrogarci.
Un eterno divenire
La prima motivazione, quella che forse ci tocca di meno, è di natura contingente: «il funzionamento della macchina umana è un mistero, per il momento, di cui gli uomini non capiscono niente», nel Seicento lo sviluppo della medicina non era così alto come lo sarebbe stato nei secoli successivi, e Beraldo fa una precisazione puntuale. Lo stesso ragionamento è possibile farlo ai giorni nostri: ci sono ancora moltissimi irrisolti in campo medico e la ricerca è costante.
Anche nel 2024 non possiamo dichiarare la conoscenza medica completa e impossibile da ampliare, ci sarà sempre un margine di miglioramento per permettere alle persone di vivere in salute e sperabilmente senza effetti indesiderati. A tal proposito però, Beraldo diffama la categoria dei medici accusando un comportamento che ai giorni nostri riscontriamo – fortunatamente – solo in rari casi:
BERALDO: Oh sì, fratello mio. Sono dei dotti umanisti, parlano un bel latino, sanno i nomi greci di tutte le malattie, e le descrivono e le catalogano assai bene; ma quanto a guarire la gente, non sanno neanche da che parte si cominci.
Atto III, Scena III
ARGANTE: Comunque bisogna riconoscere che su questo argomento ne sanno sempre più degli altri
BERALDO: Sanno, fratello mio, quello che vi ho detto, il che non è che serva molto a guarire; e il massimo della loro abilità consiste in un pomposo sproloquiare, in un gracidare fine a se stesso, che serve solo a spacciare parole invece di ragionamenti, e promesse invece di risultati.
Il paziente
Come già detto, fortunatamente medici come quelli descritti da Beraldo sono molto pochi ai giorni nostri, ma sarà sicuramente capitato di incontrare quel medico che non ascolta il paziente fino in fondo. Bisogna tener conto, però, anche dei malati immaginari che vivono nelle nostre generazioni, sempre avendo in mente la casistica ridotta di tali.
Insomma, il rapporto tra le due controparti non è mai semplice e lineare, come sempre, quando si tratta di umanità la generalizzazione non porta mai a conclusioni corrette.
A questo punto ci si potrebbe porre il problema del Teatro come strumento di esemplificazione della vita: Argante è un malato che rappresenta un tipo di carattere e così i suoi medici, dunque sembrerebbe che Molière generalizzi, e invece no! Nella figura di Beraldo l’autore porta la propria voce.
La natura
ARGANTE: […] Ma veniamo al nocciolo della questione. E quando ci si ammala, che cosa si deve fare?
Ibidem
BERALDO: Niente, fratello.
ARGANTE: Niente?
BERALDO: Niente. Non c’è altro da fare che fermarsi e riposare. E sarà la natura stessa che, a lasciarla fare, un po’ alla volta si risolleverà dal disordine in cui era caduta.
Beraldo, e Molière in lui, dunque sostiene che si debba lasciar agire la natura ed essa provvederà alla guarigione dal malanno. A questo proposito Luigi Lunari scrive:
In quel turbamento e in quelle diffidenze, proprio agli esordi di quel progresso scientifico che Molière dimostra di aver perfettamente colto, io preferirei leggere un profondo rispetto per la natura, e l’avvertimento a non considerare troppo sicura la vittoria del progresso contro «i veli che essa ci ha messo davanti agli occhi»
Luigi Lunari, Introduzione all’opera nell’edizione BUR, 1996
Dunque Molière non è tanto contro il progresso scientifico, bensì contro chi rifiuta l’andamento naturale delle cose e non sente ragioni riguardo un possibile cambiamento in base a ciò che la natura stessa comunica.
La morale della storia
Pare evidente l’importanza di questo dialogo dalla sua posizione: all’inizio del terzo atto, momento in cui l’equilibrio è sconvolto e niente è ancora risolto. La nostra attenzione è dunque al massimo a questo punto della trama e qui Molière ci presenta le sue opinioni sull’arte medica.
E noi, davanti a questo dialogo, in questo secolo, possiamo solo fare una cosa: attivare il nostro pensiero critico. Infatti non avrebbe senso dare completa ragione né a uno né all’altro: Argante segue le idee di dottori che rinnegano la scoperta della circolazione del sangue, Beraldo dal canto suo sostiene che la medicina sia completamente negativa.
La verità sta nel mezzo
Ci pensa proprio Molière a portare un esempio del suddetto pensare criticamente: nel dialogo tra Argante e Tonina travestita da medico.
TONINA: Che cosa ve ne fate di questo braccio?
Atto III, scena X
ARGANTE: Come?
TONINA: Questo è un braccio che io, se fossi in voi, mi farei tagliare immediatamente
ARGANTE: E perché?
TONINA: Non vedete che si prende per sé tutto il nutrimento, e ne lascia senza l’altro?
ARGANTE: Sì, ma a me il braccio serve
TONINA: E avete anche anche un occhio destro che io mi farei strappare, se fossi al vostro posto
ARGANTE: Farmi strappare un occhio?
TONINA: Non vedete che danneggia l’altro, e che gli sottrae tutto il nutrimento? Date retta a me, fatevi strappare quell’occhio al più presto, e vedrete come vedrete meglio con l’altro
ARGANTE: Non c’è fretta
L’autore con questa iperbole comica dichiara perfettamente il ragionamento che noi pubblico dobbiamo fare: davanti a una proposta che può ledere la nostra salute dobbiamo ascoltare il nostro buon senso. Se per Argante è necessaria la proposta di un’amputazione per farlo riflettere sulla sua cieca fiducia nei medici, forse a noi basterà qualcosa di meno. E se per Beraldo basta la sola natura per farci guarire, noi siamo già consapevoli della necessità di interventi medici quando la nostra salute è a rischio.
In conclusione, possiamo dire che Il malato immaginario non è un’opera che offre uno sguardo nuovo sull’esperienza di pazienti, bensì dimostra quanto l’uomo sia una creatura che è cambiata molto poco nei secoli e che forse ha ancora bisogno di molta autoanalisi.
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