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Je suis Charlie

Ma davvero siamo tutti Charlie?

Je suis Charlie. In questi giorni è stata la frase più ripetuta. Manifestazioni di solidarietà planetarie, ma quel un velo d'ipocrisia si cela dietro tutto ciò?

3 minuti di lettura

Je suis Charlie. In questi giorni è stata la frase più ripetuta. Giornali e giornalisti, politici e cittadini. Tutti per un giorno (e anche più) si sono sentiti vicini alle vittime dell’attentato che, con buona probabilità, diventerà l’attentato dell’anno. Si sono già sprecati i paragoni e i parallelismi con l’11 settembre 2001. Forse non è il caso di speculare sulla morte e la sofferenza altrui, ma mi permetto una riflessione.

Chi ha pianificato l’attacco ha scelto un bersaglio di forte impatto: all’opinione pubblica è risultato (e forse effettivamente lo scopo era questo) un attacco alla libertà, libertà di stampa, libertà di espressione. Ma soprattutto è un attacco all’ironia, o meglio alla libertà di farla. E ci siamo sentiti tutti, talmente toccati, che il giorno dopo le bacheche dei social networks erano piene di Je suis Charlie. Io guardo sempre con un certo distacco le manifestazioni di solidarietà planetarie. Mi sembra sempre che ci sia una patina di ipocrisia, pur se la causa è giusta.

Quando Luttazzi è stato cacciato dalla sua trasmissione da Berlusconi, lì non eravamo Charlie. Più e più volte in questi anni ci si sarebbe dovuti schierare a favore della libertà di opinione, in contrapposizione a velate minacce che hanno caratterizzato le discussioni interne ad un partito, che si dice “democratico”, minacce del tipo «Se non si fa come dico io si va ai voti» o «Si gioca insieme, o non si gioca». Ecco, quella parola. Insieme. Che connotazione assume? Sta facendo la fine di tanti termini abusati e svuotati del loro significato (vedi democrazia, eccetera)? Insieme non vuol dire uniformi. Insieme mantiene le libertà e le peculiarità di ciascuno, che in quell’Insieme vuole poterci stare senza sacrificare gran parte delle proprie idee. Insieme seguendo le regole di un leader solo, incontestabile, all’apparenza aperto all’ascolto e al dialogo, ma che poi è pronto a ridere e irridere, come se dicesse «bravo, parla parla, sei libero di farlo, tanto il gioco lo conduco io». Quando, da parecchi anni a questa parte, è cominciato ad accadere ciò, nessuno ha brandito una matita, un libro o un microfono per dire: «Io sono IO e voglio poter dire la mia, cosicché voi possiate dire la vostra, che io sia d’accordo o meno». Nessun emulo di Voltaire all’orizzonte.

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È legittimo chiedersi dunque se quest’attentato non sia stato il culmine di una lunga e silenziosa lotta contro la libertà: non sempre riconoscibile, non sempre ostacolata, proprio perché spesso legittimata da provvedimenti che venivano addirittura ben accolti, ma che lentamente toglievano un po’ di libertà.

Anche in questo caso, che avrebbe potuto essere una buona occasione per ribadire che la libertà di parola è un diritto inalienabile, non sono mancate le contraddizioni. Qualche giorno dopo l’attentato alla redazione di Charlie Hebdo, il 14 gennaio, è stato arrestato vicino a Parigi il comico e polemista Dieudonné, per apologia di terrorismo, dopo aver scritto sulla sua pagina Facebook «Je suis Charlie Coulibaly», post che è stato rimosso successivamente. Bene. Il mondo ha difeso Charlie, indipendentemente dal fatto che con le sue vignette e battute, spesso parecchio dissacranti, potesse aver offeso a turno gruppi religiosi, partiti e compagnia bella? Lo ha difeso in quanto gli è stato intimato di smettere di esercitare un suo legittimo e inalienabile diritto alla satira? Senza pretendere di entrare nel merito del fatto che alcune vignette potrebbero essere state particolarmente provocatorie? Perfetto. Condivisibile. E allora Dieudonné non ha lo stesso diritto di provocare di Charlie? Per lui il diritto va interpretato? Beninteso, la sottoscritta non è d’accordo con Dieudonnè. Ma nemmeno con tutte le vignette di Charlie. Però so che sto esercitando il mio diritto alla libertà di espressione quando difendo il loro.

Je suis Charlie

Ironizzare non è dire il falso. Non esiste diffamazione nella satira. La satira e la commedia lanciano frecciate, regalano a chi le ascolta uno spunto di riflessione, oltre che una sana risata. Ma l’ironia (quella vera), proprio perché non conosce ideologie, fa paura. Fa paura la sua libertà e irriverenza nel colpire tutti, nessuno escluso. L’impossibilità di ingabbiarla in qualche schieramento o di costringerla a marciare sotto qualche bandiera. L’ironia, scriveva Rorty, «è il contrario del senso comune». È una vera e democratica (poiché comprensibile da molti) arma contro l’ignoranza. L’ignoranza, che poi si trasforma in intolleranza e infine in violenza, detesta l’ironia. La comprende, si sente attaccata, ma non la coglie fino in fondo. Non coglie il suo distacco dal qualsiasi fanatismo, di ogni colore. E per questo vuole annientarla. Questo è, a parer mio, l’unico conflitto veramente pericoloso.

Se siamo tutti veramente d’accordo nel difenderla questa benedetta libertà di espressione, cerchiamo, noi per primi, di liberarci di quello spirito “militante” e orgoglioso che ci avvelena. E che non può portarci altrove se non ad uno scontro.

Ripartiamo da un dialogo razionale, nel nostro piccolo. È sorprendente come lo spirito critico e una lucida visione del mondo possano proprio scaturire da lì.

di Susanna Causarano

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