Ci sono storie che iniziano con un tramonto, decadenze davanti cui scegliamo di indossare dei paraocchi e tirare dritto per la nostra strada ignorando i segni del crollo di un’epoca. A volte persino combattendo per prolungare l’agonia di elementi in cui ci riconosciamo troppo per accettarne la scomparsa dalle nostre vite.
Di questa ostinazione Carlo il Temerario, ultimo duca di Borgogna, fu campione assoluto e favoloso.
C’era una volta un regno, nemmeno troppo piccolo, fondato dal popolo dei Burgundi durante il declino dell’Impero romano, intorno alle attuali città di Nevers, Autun, Digione e Besançon. Siamo in Francia orientale, appena a ovest dell’Alsazia.
I Franchi poi, nella loro inarrestabile espansione sotto la guida della dinastia merovingia, inglobarono il regno entro la metà del VI secolo; il territorio rimase compatto nell’orbita francese per qualche secolo, per essere poi smembrato durante la spartizione dell’impero di Carlo Magno tra i suoi nipoti (il trattato di Verdun dell’843). Risale a questo periodo la nascita di un vero e proprio ducato di Borgogna, divenuto vassallo dei re di Francia: i Capetingi (la dinastia seduta sul trono francese dal X al XIV secolo) decisero di affidarne il comando a un loro ramo cadetto, chiamato appunto casato di Borgogna. Ricordiamoci che il ramo cadetto di una dinastia è quello che si origina al di fuori della linea di discendenza diretta, tendenzialmente da ognuno dei fratelli di chi sta regnando.
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Come accade spesso, nel corso dei secoli i tratti peculiari della Borgogna la allontanarono sempre più dalla Francia, mentre la nobiltà cavalleresca locale acquisiva un ruolo via via più centrale. Il ducato consolidò i suoi confini e si arricchì grazie all’astuta politica matrimoniale di alcuni duchi – e dalla capacità militare di altri –, diventando un territorio fiorente, bello, ricco e affascinante, in cui lo sfarzo della corte e la potenza militare facevano da numi tutelari. Quando a metà del Trecento l’ultimo membro del casato di Borgogna morì, il re di Francia tentò di annettere il ducato tra i suoi possedimenti personali, trovando tuttavia l’opposizione dei nobili locali; questi ultimi lo costrinsero a “rinnovare” l’autonomia borgognona facendogli nominare duca il figlio minore Filippo (detto poi l’Ardito): questa azione di fatto separava nuovamente la dinastia ducale da quella che regnava in Francia, allontanando il rischio che il ducato confluisse nei possedimenti diretti del re. Nasceva così il casato di Valois-Borgogna.
Potremmo dire che Filippo si appassionò alla causa: non a tutti i quartogeniti delle dinastie regnanti capitava la fortuna di ritrovarsi al comando di un territorio del genere. Nel 1369 sposò l’erede della contea di Fiandra, Margherita, garantendosi l’annessione dei ricchissimi territori sul Mare del Nord con le città di Brugge e Gent. Il figlio Giovanni (detto senza paura) non esitò a schierarsi con gli inglesi contro la Francia durante la Guerra dei cent’anni (anzi, era stata proprio un conflitto tra Borgognoni e Armagnacchi a riaccendere nuovamente la miccia di quella guerra continentale). Seguirono Filippo il Buono e, infine, dal 1467, Carlo il Temerario.
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Nato il 10 novembre 1433, crebbe nei territori fiamminghi e fu educato secondo gli standard più elevati, non solo per quanto riguardava la fondamentale etichetta di corte, ma anche in ambito culturale. I tempi d’oro della cavalleria erano passati da tempo, tuttavia nell’immaginario dei titolati europei le storie degli eroi dell’epica erano decisamente vive. Carlo fin da giovanissimo amò le storie dei cavalieri di Re Artù, ma crescendo si appassionò anche all’antichità: alla sua corte furono chiamati intellettuali dal resto d’Europa con il solo scopo di tradurre per lui le gesta di Giulio Cesare, Annibale e Alessandro Magno, e i suoi biografi ci narrano di come passasse ore a farsele leggere prima di andare a letto. Inutile a dirsi, Carlo il Temerario divenne un grande guerriero, ma l’educazione non riuscì a smussare i tratti caratteriali che l’avrebbero reso così celebre: se da una parte era instancabile, intelligente e volenteroso, dall’altra si mostrò spesso testardo, impulsivo e preda di attacchi di rabbia improvvisi.
Non dimenticò mai la raffinatezza ormai leggendaria della sua corte: Carlo accoglieva regolarmente in udienza i sudditi che lo desiderassero, i quali entravano nella sala del trono passando tra due ali di nobili schierati (e costretti a presenziare), e ospitava cene sontuose, gestite da un esercito di servitori organizzati con meccanismi precisissimi e ordinati, anche nelle gigantesche cucine da sette camini in cui il capocuoco sedeva su una sedia rialzata, come un arbitro di tennis, per tenere la situazione sotto controllo. Ognuno a corte conosceva il suo ruolo e il cerimoniale era seguito con fede quasi religiosa. Anche in guerra la bellezza eccentrica della corte di Borgogna doveva apparire chiara a tutti: all’assedio di Neuss i cavalieri più vicini al duca fecero erigere le loro tende a forma di castello, ascoltando musica e disquisendo tra loro con abilità oratoria; Carlo stesso si presentò a un torneo indossando un abito interamente ricoperto di sonanti fiorini d’oro.
Come mise in evidenza il grande storico Johan Huizinga, in Carlo il Temerario la fusione di elementi cavallereschi e rinascimentali era perfetta; sempre lui parlò di una «epopea di orgoglio eroico» per definire l’intera storia borgognona.
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I maggiori sforzi di Carlo il Temerario andarono verso l’unione e l’espansione dei due blocchi territoriali in suo possesso, quello in area francese e il fiammingo, per costituire una nuova potente entità capace di resistere tra il Sacro Romano Impero e il regno di Francia; entro il 1473 aveva ottenuto l’Alsazia e si era alleato con il duca di Lorena, e già metteva gli occhi sulla Savoia. Inevitabilmente questo espansionismo finì per punzecchiare un po’ troppo i vicini, grandi e piccoli, che lo circondavano: in particolare a spaventarsi fu la giovane e potente Confederazione elvetica (oggi la chiamiamo anche Svizzera), che si avvicinò alla corona di Francia nonostante decenni di rapporti idilliaci con la Borgogna, mentre alcune città del Sacro Romano Impero si univano in una lega difensiva. Ma Carlo era ormai lanciato, e cominciò le trattative per far sposare sua figlia Maria con Massimiliano, il figlio dell’imperatore Federico III d’Asburgo; i primi tentativi furono interrotti dalle intromissioni del duca in questioni interne all’impero, prendendo le parti dell’una o dell’altra fazione nei conflitti che sorgevano in continuazione al di là del Reno, finché finalmente gli accordi furono presi – ma il matrimonio non ancora celebrato.
Carlo aveva a quel punto pensieri più impellenti: il suo carattere e l’impeto con cui guidava la Borgogna nello scenario europeo gli impedivano di orientarsi nella selva di alleanze che gli sorgevano intorno. Le città alsaziane si ribellarono, nel 1476 il duca di Lorena invase la Borgogna con l’aiuto degli Svizzeri conquistando la capitale Nancy, e Carlo ribatté contrattaccando, mentre i vecchi amici lo abbandonavano uno dopo l’altro. Raccolti i rimasugli del suo esercito marciò verso Nancy, mettendola sotto assedio; attaccato dall’esercito svizzero morì davanti ai suoi uomini, guidando un’ultima disperata carica di cavalleria. Era il 5 gennaio 1477.
Alla guida del ducato si ritrovò Maria, promessa sposa di Massimiliano d’Asburgo (con il quale si sarebbe unita nello stesso anno), ma il destino dell’esperimento borgognone era già segnato: le città fiamminghe accettarono di rimanere sotto controllo solo in cambio di larghissime autonomie, mentre il re di Francia iniziava ad occupare i possedimenti del ducato originario, spartendoseli con il Sacro Romano Impero. Maria di Borgogna, ultima duchessa, morì cadendo da cavallo durante una battuta di caccia nel 1482.
Gli sforzi dei Valois-Borgogna non sparirono nel nulla: Filippo, figlio di Maria e Massimiliano, ereditò i territori materni, e sposò Giovanna, figlia dei re della Spagna unificata, Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona. Tutto ciò che era appartenuto agli antenati borgognoni, compreso il loro valore guerriero, i loro principi di vita, il loro amore per la bella vita di corte, sarebbe finito nelle mani e nel cuore del loro primogenito, il futuro imperatore Carlo V, che l’avrebbe addirittura esportata nelle altre sedi del suo immenso dominio.
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