Si può dire che in Brasile sia iniziato qualche settimana fa il prologo della campagna elettorale per le presidenziali 2022. A innescare la competizione è stata la notizia del 9 marzo sull’assoluzione da parte della Corte Suprema di Luiz Ignàzio Lula Da Silva, leader del Partito dei Lavoratori (PT), ex-presidente e maggior rivale dell’attuale uomo forte brasiliano Jair Bolsonaro.
Per comprendere le dinamiche politiche brasiliane di oggi però è necessario fare alcuni passi indietro: la resistenza operaia e sindacale guidata da Lula negli anni ’80 contro la dittatura militare, i suoi governi con il Partito del Lavoratori negli anni 2000 e le politiche socialiste, l’impeachment-golpe alla sua erede politica Dilma Rousseff nel 2016, le indagini anti-corruzione dell’operazione Lava Jato guidate dalla controversa figura del giudice Sergio Moro, la vittoria di Jair Bolsonaro nelle elezioni del 2018 e, oggi, il ritorno in scena del leader della sinistra.
Il Lula degli inizi
La carriera politica di Lula Da Silva comincia in un periodo buio della storia brasiliana, durante la dittatura militare (1964-1985), quando nel 1980 fonda il Partito dei Lavoratori, fortemente di sinistra, progressista ed operante nell’attività sindacale attraverso l’organizzazione di scioperi e manifestazioni contro il regime. Alla caduta dei militari, nel 1986 il PT partecipa alla redazione della nuova Costituzione e inizia a consolidare un suo spazio nella scena politica.
Dopo essersi candidato ed essere stato sconfitto in tre presidenziali, Lula vince le elezioni nel 2002 e comincia il suo governo, che durerà fino al 2010, alleandosi con il partito centrista PMDB. Le politiche di Lula sono all’insegna del welfare e del sostegno alle fasce più fragili della popolazione. Le iniziative assistenziali come Bolsa Familia – programma per la scolarizzazione dei ceti poveri – sono finanziate grazie alla scoperta di giacimenti petroliferi, la cui gestione viene affidata alla compagnia statale Petrobras. Nel 2010 Lula termina il suo secondo mandato con consenso dell’87%, la sua erede politica del PT Dilma Rousseff vince le elezioni di quello stesso anno e il governo di sinistra brasiliano prosegue promettente.
La presidenza Rousseff, la crisi economica e l’impeachment/golpe del 2016
I primi anni della presidenza di Dilma Rousseff vedono il mantenimento di un alto consenso e una serie di politiche di regolamentazione contro le élite ricche del paese. Nel 2013 però le difficoltà economiche, causate da alcuni elementi di debolezza strutturale (come il sistema pensionistico) e da congiunture internazionali, si fanno sempre più pressanti sulla popolazione, tanto che sorgono delle proteste popolari anti-governative.
Nonostante il calo dei consensi coincidente con le proteste e con la forte percezione di disagio economico, Dilma Rousseff vince le elezioni del 2014, ottenendo un secondo mandato. Il suo avversario Aecio Neves, esponente del partito di centro-destra liberale PSDB, però comincia una campagna di diffamazione in cui sostiene, senza prove, che le elezioni fossero truccate, aizzando in questo modo le sollevazioni popolari di estrema destra, le quali iniziano ad infiammare il paese di proteste nostalgiche del regime dittatoriale. Accanto a questa instabilità politica, ad aggravare la posizione della presidentessa Rousseff c’è la recessione sempre più drammatica che dal 2014 al 2017 mette in ginocchio l’economia brasiliana. A poco servono i tentativi della presidentessa di adottare misure di austerity, i buchi di bilancio cominciano sempre più a somigliare a voragini.
Nel clima di delirante e ossessiva lotta alla corruzione che dal 2014 – con l’inizio dell’operazione Lava Jato – caratterizzava la vita politica brasiliana, nel 2016 l’opposizione chiede di avviare il procedimento di impeachment nei confronti di Rousseff, accusata di aver truccato il deficit di bilancio annuale attraverso spostamenti di denaro verso le banche pubbliche. Il dibattito si fa accesissimo, tanto che si discute persino riguardo a come chiamare questa iniziativa: impeachment o golpe? I sostenitori di Dilma Rousseff non hanno dubbi: l’obiettivo dell’opposizione è liquidare la presidentessa per motivi puramente politici, quindi si tratta a tutti gli effetti di un’azione di sovvertimento di un capo di stato legittimamente eletto, è un golpe. Dilma Rousseff viene condannata e deposta, in attesa delle elezioni assume il potere il suo vicepresidente-rivale Michel Temer, del PMDB.
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Per tenere conto le rivalità intestine ai governi brasiliani di quegli anni è sufficiente sapere che l’originariamente sinistrissimo PT si era alleato con il centrista PMDB per ottenere i numeri necessari al Congresso per governare. Il PMDB dal canto suo, espressione degli interessi economici forti del paese, voleva essenzialmente restare al governo per tutelare quegli stessi interessi, cosa che ovviamente era possibile solo alleandosi con il partito del presidente eletto.
Lava Jato, Sergio Moro e la persecuzione di Lula
L’operazione Lava Jato è la maxi-inchiesta giudiziaria iniziata nel 2014 e ancora in corso, che mira a smantellare il sistema di corruzione caratterizzante la vita politico-economica del paese. Protagonisti di quest’impresa sono il leader e giudice Sergio Moro e i suoi procuratori in qualità di giustizieri, e gli esponenti politici di praticamente tutti i partiti dell’arco parlamentare e le compagnie industriali in qualità di fuorilegge. Tra le caratteristiche dell’operazione quella che spicca maggiormente è la spettacolarizzazione dei procedimenti giudiziari. Ma a preoccupare è soprattutto la parzialità con cui gli imputati vengono scelti, le indagini vengono portate avanti e le sentenze vengono emesse. E’ l’inchiesta di The Intercept del 2019, soprannominata il “Watergate brasiliano”, a svelare delle conversazioni tra il giudice Moro ed i suoi collaboratori, in cui egli ordinava di non indagare su alcuni politici anche se corrotti in quanto alleati necessari contro i bersagli appartenenti alla sinistra.
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Tenendo presente che la corruzione in Brasile è realmente capillare e sistemica, ciò che viene biasimato a Moro non è tanto l’aver tentato di “combatterla”, quanto piuttosto il fatto che la lotta alla corruzione non fosse il suo fine: avvantaggiare una determinata fazione politica, quella della destra conservatrice liberista, lo era.
Le indagini, sin dal loro inizio, mettono in luce una prassi consolidata di scambio di tangenti che vengono pagate dalle aziende private ai politici in cambio della loro mediazione con l’impresa statale Petrobras che concede ad esse gli appalti.
Mentre il Congresso si scagliava contro Dilma Rousseff, la magistratura di Sergio Moro nel marzo 2016 iniziava le indagini su Lula perché sospettato di far parte del giro di corruzione tra aziende e Petrobras. In particolare di aver ricevuto una tangente il cui denaro sarebbe stato riciclato attraverso un lussuoso appartamento di cui egli sarebbe stato il proprietario. La spettacolarizzazione della vicenda fu estremizzata e il risultato fu la creazione di un’impressione di colpa molto diffusa nella popolazione, seppur gli indizi contro Lula fossero pressoché insignificanti. Infatti non c’erano prove che egli fosse entrato in possesso dell’appartamento in questione, eppure i procuratori sostenevano a prescindere che ne fosse il proprietario e che proprio l’assenza di documenti che lo certificassero costituisse la dimostrazione della sua colpevolezza.
Lula viene condannato in primo grado da Moro nel luglio 2017 a nove anni e mezzo di carcere, resta in libertà fino alla sentenza della Corte d’appello dell’aprile 2018, la quale aumenta la pena a dodici anni e determina l’incarcerazione del leader del PT. La richiesta da parte degli avvocati di Lula di sospensione della pena fino a quando non avesse finito le possibilità di ricorso viene respinta. Lula diventa un detenuto del carcere di Curitiba, dove rimarrà fino al novembre 2019, quando verrà scarcerato in attesa del giudizio della Corte Suprema.
Le elezioni del 2018 e la presidenza di Bolsonaro
A gettare ombre e legittimi dubbi sulla buona fede del giudice Moro non sono solo le informazioni emerse nella già citata inchiesta di The Intercept, ma anche il tempismo della condanna di Lula e la successiva evoluzione degli eventi. Il capo della sinistra brasiliana viene infatti incarcerato nel pieno della campagna elettorale per le elezioni presidenziali del 2018, nell’ambito della quale era in vantaggio, ciò determina la vittoria del suo rivale Jair Bolsonaro, appartenente all’ultradestra conservatrice e liberista. Non solo, perché a destare polemica è anche l’accettazione da parte di Sergio Moro della carica di super-ministro della giustizia nel governo Bolsonaro. Ricapitolando: un giudice al centro della scena pubblica perché impegnato nella lotta contro la corruzione diventa ministro nel governo di un presidente che ha vinto grazie all’incarcerazione del suo rivale politico, decisa l’anno precedente dal giudice-ministro stesso. La tesi più accreditata dei sostenitori di Lula è che l’azione giudiziaria di Moro fosse sin dagli inizi orientata in senso politico e che avesse l’obiettivo di eclissare la sinistra socialista e portare al potere un presidente che facesse gli interessi della potente élite economica brasiliana.
L’analisi delle politiche e degli indirizzi presi da Bolsonaro nel suo primo anno di presidenza non smentiscono certo questa opzione: i suoi cavalli di battaglia in campagna elettorale riguardavano la liberalizzazione in ambito economico, tradottasi in ingenti privatizzazioni e in una forte deregolamentazione; le sempre maggiori concessioni per il possesso di armi da parte dei cittadini, che favoriscono la lobby di quel comparto dell’industria bellica e l’eliminazione delle tutele governative sulle riserve in Amazzonia abitate dalle popolazioni indigene, in favore dell’industria agro-alimentare che tenta costantemente di espandere le terre coltivabili a discapito della salute del polmone verde del globo (i disastrosi incendi dell’agosto 2019 costituiscono una delle conseguenze).
Nonostante, o forse proprio grazie alla carenza di diplomazia, alle dichiarazioni nostalgiche della dittatura militare, all’utilizzo propagandistico della discriminazione della comunità LGBTQ+, al sessismo e al populismo di tendenze trumpiste, il presidente Bolsonaro aveva una solida base di supporto tra i potenti del sistema economico brasiliano e anche tra la popolazione, disillusa e sconvolta dalla presunta colpevolezza di Lula.
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Il primo anno della presidenza Bolsonaro vede il parto di una da tempo necessaria riforma costituzionale che cambia il sistema pensionistico ormai insostenibile per l’economia del paese (le spese per le pensioni erano arrivate a toccare il 13% del PIL) e la fuoriuscita dalla recessione economica con un aumento della produttività, che però, si faccia attenzione, non implica un miglioramento delle condizioni della popolazione se non si traduce in redistribuzione delle ricchezze.
Il 2020 però, come tristemente sappiamo, ha riservato sorprese: la pandemia e l’atteggiamento negazionista da parte del presidente, che perdura tutt’oggi, hanno provocato sia un forte calo di consenso da parte della popolazione che l’allentarsi del supporto da parte dell’élite economica.
L’assoluzione di Lula e la sfida contro Bolsonaro
In uno scenario in cui il sistema sanitario del Brasile si trova al collasso, con una variante di COVID-19 estremamente contagiosa in circolazione, un conteggio delle vittime che è arrivato a toccare i tremila morti in un giorno e un presidente che invita a non usare la mascherina, sconsiglia i vaccini e critica le scelte dei governatori federali di imporre restrizioni, un barlume di luce è arrivato. Il 9 marzo il giudice della Corte Suprema Edson Fachin ha annullato le condanne di Lula sostenendo che non fossero imparziali e che il tribunale che le ha emesse non ne avesse la giurisdizione. Il leader del PT ha così il via libera per rientrare nella scena politica e gareggiare contro Bolsonaro per le presidenziali 2022.
C’è chi sottolinea che la strada non sia ancora spianata per Lula, nonostante l’annullamento delle condanne infatti dovrà sostenere un nuovo processo, legittimo e imparziale, per le accuse di corruzione. Tuttavia si reputano scarse le possibilità di condanna e comunque è escluso, viste le tempistiche della giustizia brasiliana, che ci possa essere una sentenza definitiva prima delle elezioni 2022.
La scontro tra Lula e Bolsonaro è dunque aperto, gli analisti hanno già individuato quali saranno i temi caldi: gestione della pandemia e questioni economiche, l’evoluzione è da vedersi.
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