Lucio Corsi

Lucio Corsi è sempre stato qui

La musica italiana ha un nuovo Lucio: un artista puro che incanta con la sua semplicità e dolcezza. Eppure, non è certo un nuovo arrivato.

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Il nome Lucio sembra essere rivestito di una certa aura magica. Già Apuleio, nel II secolo d.C., associava questo nome a personaggi mitologici. Le peripezie di Lucio, il protagonista delle Metamorfosi (o L’asino d’oro), iniziarono dal suo puro desiderio di scoprire e praticare il mistero dietro gli incantesimi e le arti magiche. Un nome semplice, elevatosi nuovamente a mito nell’Italia degli anni Sessanta, con i due quasi-gemelli del cantautorato (dopotutto, Dalla e Battisti spegnevano lo stesso numero di candeline ad un solo giorno di distanza l’uno dall’altro). Un nome che, più che ritrovarselo, sembra sia necessario guadagnarselo. Più che mai se decidi di fare il cantante in Italia. Questo processo ha richiesto un po’ di anni per Lucio Corsi, ma, improvvisamente, si è consolidato in un tempo brevissimo. L’Italia si è ricongiunta al suo Lucio. È stato un attimo: un riconoscimento, una consapevolezza immediata, di fronte a qualcosa che non si pensava di aver perso. È tornata la “Lucio-mania“.

Due gambe fine che sorreggono un corpo esile. Non è certo alto tre metri, ma l’impressione nel guardare Lucio Corsi muoversi sul palco è quella che si ha di fronte ad un trampoliere, che si aggira gentile e scherzoso – a volte un po’ beffardo – tra grandi e piccini. Una piuma che svolazza, ma che non si decompone. Il suo ingresso sul palco dell’Ariston ha fatto trattenere il respiro al pubblico per qualche secondo. Proprio come quando si ha dinanzi a sé un circense o un illusionista pronto a fare uno dei suoi numeri. Una curiosità tipica di fronte a un qualcosa di nuovo. Alla fine dello spettacolo, però, la magia era fatta. Dopotutto, assistere alla pura autenticità di un personaggio in maschera non è cosa da tutti i giorni.

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Eppure, Lucio Corsi non è certo un nuovo arrivato. Guai a cadere nell’inganno della giovane età. Il fatto che buona parte del grande pubblico non sapesse neppure dell’esistenza di un personaggio simile, non può portare a pensare che il Lucio del XXI secolo sia sbucato fuori soltanto nei mesi antecedenti alla 75esima edizione di Sanremo. La sua carriera inizia dieci anni fa, nel 2015, con Vetulonia dark, proseguendo con Bestiario musicale nel 2017, nel 2020 con Cosa faremo da grandi? e nel 2023 con La gente che sogna. Il nuovo album, Volevo essere un duro, è uscito una manciata di giorni fa, a coronamento di un percorso che è passato per il cantautorato indie, il glam, il pop rock e il surrealismo di molti dei suoi testi. Chi ha assistito ai suoi primi concerti se lo ricorderà, questo extraterrestre, sempre esile, con vesti colorate, tacchi vertiginosi e il trucco immancabile sul viso. Poi, solo voce e chitarra. Uno sfarzo e un carisma esterno a compensare la semplicità e la delicatezza dei contenuti.

C’era un mio amico che era troppo secco, col vento volava
E volando in alto andò a scontrarsi ad un aeroplano
Che gli disse “Guarda che se ti concentri arrivi alla luna
Guarda, se ti concentri arrivi alla luna”

Per questo la luna, piena di buche
Ce le ha fatte lui con la sua testa
E invece di piantarci una bandiera
Ritornava giù ogni sera

C’era un mio amico che era troppo secco, col vento volava
I dottori dissero “Appesantirlo è l’unica cosa da fare”
L’ingegnere si inventò un’armatura da sei quintali
Ma a nessuno venne in mente
Di costruirgli le ali

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Ecco, Lucio Corsi è questo. È un puro, come molti han detto, stringendo quasi i denti, per la paura che questo nuovo mondo del successo lo cambi, lo sfiguri. Presta la sua voce ad animali immaginari, a lepri che diventano astronauti improvvisati o upupe che un tempo erano zebre. Parla con pupazzi, ha orologi che lo portano indietro nel tempo e il vento è il suo motore. Lucio Corsi è tornato sul pianeta Terra per ricordarci che la vita sa essere estremamente poetica, se si ritrova la propria capacità di immaginare. L’innamoramento del pubblico è strettamente legato all’aver ritrovato nel mondo dei grandi una dimensione che si pensa, ad un certo punto, di dover mettere da parte. Perché, ormai, nel mondo vero non serve più, è inutile. Fa sorridere, a questo punto, il fatto che molti abbiano frainteso il verso finale di Volevo essere un duro, credendo che recitasse «Non sono altro che luce», anziché «Non sono altro che Lucio».

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Margherita Coletta

Classe 1998. Mezza etrusca, mezza romana. Le piace girovagare e fare incontri lungo la via. Appassionata cacciatrice di storie, raccontagliene una e sarà felice.

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