Se c’è un autore che, sul grande schermo, ha incarnato al meglio il senso profondo della cultura mitteleuropea, coniugando queste suggestioni con un sincero impegno civile e con una seria riflessione storica, questi è di certo Luchino Visconti.
Conte di Bozzolo, discendente di una delle famiglie nobiliari più importanti d’europa, nasce a Milano nel 1906. Fin da ragazzo studia violoncello, è influenzato dal mondo della lirica e viene sin da subito a contatto con grandissimi artisti e intellettuali che frequentavano il salotto di casa Visconti (uno su tutti Arturo Toscanini). Per la carriera di Visconti fondamentale si rivelò l’incontro con Jean Renoir, conosciuto attraverso Coco Chanel con la quale Visconti aveva una relazione. Visconti fu assistente di Renoir nei film Les basfonds e Une partie de campagne. Tornato a Roma dopo la morte della madre il giovane Luchino conosce gli intellettuali che collaboravano alla rivista Cinema e grazie ad essi si avvicina al Partito Comunista, all’epoca dichiarato illegale dal regime. È in questo contesto che comincia a germogliare una nuova idea di Cinema, tesa ad abbandonare le atmosfere melense del cosiddetto cinema dei telefoni bianchi e a raccontare la realtà con una aderenza mai vista prima e, soprattutto, con soluzione registiche assolutamente inedite.
A partire da queste premesse teoriche Visconti firma la sua prima regia con Ossessione (1943). Considerato il primo film neorealista, l’opera non riscontrò consensi nella critica dell’epoca, ma risultò evidente come il film costituisse una sorta di manifesto di un nuovo modo di intendere il cinema in Italia. D’altra parte già in quest’opera prima è possibile riscontrare come Visconti da un lato apra la strada al neorealismo dall’altra si distanzi dal modo i cui questa poetica sarà declinata nei successivi film di Vittorio De Sica, Roberto Rossellini e Giuseppe De Santis. Ossessione mostra tutti gli elementi caratterizzanti quello che sarà il suo stile e la sua poetica nel corso degli anni successivi: l’influsso del melodramma, non solo in senso superficiale ma anche a livello di scrittura (Ossessione infatti predilige l’atmosfera piuttosto che l’intreccio e la narrazione procede per ellissi), la cura maniacale per i dettagli scenografici, le scelte estetiche (più che estetizzanti come sosterrebbe qualche “paladino” di un cinema realistico scialbo e pseudoimpegnato), e ancora la componente erotica, talvolta solo latente talaltra del tutto manifesta, che impregnerà le opere viscontiane successive e le psicologie dei suoi personaggi – si veda il saggio di Mauro Giori Poetica e prassi della trasgressione in Luchino Visconti. Con il film successivo La terra trema, il regista milanese firma la sua opera più neorealista. Attori non professionisti, inquadrature “poco studiate”, dialetto e non lingua fanno parte della più tipica “grammatica” visivo/narrativa del Neorealismo. Dopo la parentesi di Bellissima, opera nella quale il regista affronta con intelligenza le meschinità che talvolta attraversano l’ambiente del cinema, la carriera di Visconti oscillerà tra tre grandi poli estetici e poetici. Il primo è costituito da ciò che potremmo chiamare il “ricordo dell’esperienza neorealista”, la quale ritorna prepotentemente e con risultati straordinari in Rocco e i suoi fratelli. Il secondo è costituito dall’ispirazione letteraria: ogniqualvolta Visconti ha deciso di rifarsi direttamente a un libro o ha scelto di incrociare più riferimenti letterari i risultati sono stati assolutamente discontinui. Se Il Gattopardo (dal romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa) e Gruppo di famiglia in un interno (dove il riferimento al libro di Mario Praz, Scene di conversazione, è sostenuto da una struggente vena autobiografica) possono essere considerati dei capolavori, gli altri casi quali Vaghe stelle dell’orsa (dramma intimista e decadente che tenta di conciliare l’Elettra di Sofocle e il teatro dannunziano) e L’innocente (ancora da Gabriele D’annunzio) non riescono a raggiungere il livello di altre opere viscontiane. Un caso a parte è poi Lo straniero, ispirato all’opera di Albert Camus. In quest’occasione il regista non ebbe la possibilità di realizzare le proprie idee a causa delle pressioni della vedova Camus (che aveva venduto i diritti al produttore De Laurentiis e si era assicurata il controllo sul lavoro di adattamento cinematografico). L’opera viene considerata il punto più basso della carriera di Visconti ma, forse, bisognerebbe riconoscere con onestà intellettuale che il film in questione “non è” opera di Visconti. Lo stesso regista “disconobbe” il film negli anni successivi.
Il terzo e ultimo polo in cui si è mossa l’ispirazione viscontiana è quella che potremmo definire “della Storia, delle storie e del Mito”. In film quali Senso, La caduta degli déi, Morte a Venezia e Ludwig il regista milanese riflette sulla Storia, sui suoi protagonisti (il re di Baviera Ludwig II) o sui suoi momenti più pregnanti (l’avvento del Nazismo), a partire dalle “storie” di singole famiglie e di singoli individui, con i propri drammi con i propri fantasmi, con le proprie ossessioni, perversioni e debolezze. Grazie a questo impasto, che costituisce poi una delle caratteristiche fondamentali della “scrittura” dell’antica Tragedia, Visconti riesce a superare i limiti, talvolta angusti, della rappresentazione “realistica” tout-court, attingendo direttamente al Mito, agli archetipi e al mondo pulsionale più profondo.
Il film della settimana
La caduta degli déi
(1969, con Dirk Bogarde, Ingrid Thulin, Helmut Berger, Helmut Griem)
I giorni dell’ascesa del nazismo fanno da sfondo alle vicende dei Von Essenbeck, famiglia di industriali dell’acciaio, dilaniati dalla lotta per il potere. Le loro rivalità e le loro fragilità consegneranno l’impresa di famiglia ai nazisti. Il regista, muovendosi tra i riferimenti letterari più disparati (da I Buddenbrook di Thomas Mann al Macbeth di William Shakespeare, da I demoni di Fedor Dostoevskij a I turbamenti del giovane Törless di Robert Musil) costruisce un affresco potente e oscuro, dalle cadenze apocalittiche di impronta wagneriana. Ma l’opera è molto di più. Primo film della cosiddetta trilogia tedesca, esso costituisce un saggio dello stile viscontiano: quel marchio di fabbrica che ha reso il regista milanese una delle icone culturali del XX secolo. L’atmosfera morbosamente estetizzante in cui è immersa la narrazione fa da sottile commento alle psicologie sfaccettate dei protagonisti, su tutti il personaggio del giovane Martin (interpretato magistralmente da un bellissimo e “luciferino” Helmut Berger), vera e propria incarnazione del Male e del Nazismo letto come “perversione collettiva”.
[…] la chiave del realismo sta proprio in questo. Come diceva il padre del neorealismo italiano, Luchino Visconti: «l’attore è prima di tutto un uomo. Possiede qualità umane-chiave. Su di esse cerco di […]
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[…] non citare il film di Luchino Visconti (1957) Leone d’argento al Festival di Venezia: il regista sceglieva l’ambientazione in bianco e […]
[…] su questa linea sarebbe impossibile non citare La caduta degli dei di Luchino Visconti. Qui tutti sono bellissimi, glaciali, e assolutamente diabolici. Il film, come noto, tenta di […]
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[…] ’58 fu un successo editoriale. L’opera decretò il tramonto del Neorealismo, ispirò uno dei cineasti che lo fondarono, entrò nei dizionari coniando un nuovo aggettivo come gattopardesco. Ma la […]
[…] gli attori giovani della scena teatrale nostrana, lavorando con Guido Salvini, Luigi Squarzina e Luchino Visconti, e il suo repertorio fu sin da subito vasto e poliedrico: recitò nei panni di Kowalski in Un tram […]
[…] nella Medea di Pier Paolo Pasolini) la Callas era ormai sola, i suoi grandi amici, tra cui Luchino Visconti, erano venuti a mancare, lo scemare della sua carriera, e il mancato conforto della famiglia, […]