A due mesi dalla fine dell’anno, i dati relativi alla violenza sulle donne nel 2023 sono enormi. Ci sono stati 93 femminicidi in nove mesi ed ogni volta il nostro paese piange epiloghi già annunciati. Eppure, il 9 ottobre scorso, il presidente della regione Lazio, Francesco Rocca, ha annunciato lo sfratto dell’immobile ATAC che ospita la casa delle donne Lucha Y Siesta.
Leggi anche:
La questione del genere e il femminismo post-strutturalista
Questa casa è un bene comune che nasce nel 2008 a sostegno della lotta femminista e transfemminista contro la violenza di genere. Nasce come centro anti-violenza per aiutare le donne ad uscire dalla spirale di oppressione e solitudine. Tuttavia, col tempo è diventato un luogo di incontro e di discussione sull’identità, l’accettazione di sé e il patriarcato. Le donne che in 14 anni hanno varcato quella porta provengono da realtà, storie e posti diversi. Il punto di incontro per tutte è stato il conforto trovato dinanzi ad operatrici anti-violenza, psicologhe esperte in violenza di genere, avvocate, ostetriche e ginecologhe, mediatrici linguistiche e volontarie.
Lucha y Siesta è diventato un bene comune e sociale irrinunciabile. Pensare di porre fine ad un posto che ha come bene primario il sostegno verso i più deboli è inaccettabile. Nonostante ciò, il presidente Rocca ha posto un limite di tempo all’immobile togliendo fondi e aiuti. In precedenza, l’amministrazione Raggi nella Capitale lo aveva già abbozzato come progetto. A supporto della sua decisione, la Giunta Rocca ha dichiarato che su quell’immobile ci costruirà un’opera di ingegneria giuridica innovativa che avrà come obiettivo l’inserimento di esperti ed esperte in violenza di genere.
Ma abbiamo davvero bisogno di questa “innovazione”? E nel frattempo le donne vittime di violenza che non hanno luogo in cui ripararsi dove andranno spostate? Roma gestisce 14 centri anti-violenza, 5 in collaborazione con le Università Tor vergata e La Sapienza e 3 case rifugio in tutta la regione.
Essendo un bene comune, un centro anti-violenza è regolamentato da appalti pubblici con procedure dettagliate. Non solo attraverso codici contrattuali e disciplinari, ma la validità e la durata di un centro viene stabilita anche sui numeri e sull’affidabilità del suo lavoro. Un contratto medio ha una durata che va da 3 a 5 anni dopodiché si ricostruisce “l’appalto”. Uno dei codici fondamentali su cui si basa l’anima del CAV è l’articolo 5-bis comma 3 del decreto legge 93/2013: un centro è regolare se ha «maturato esperienze e competenze specifiche in materia di violenza contro le donne» e se utilizza «una metodologia di accoglienza basata sulla relazione tra donne, con personale specificamente formato».
In più, si deve far riferimento alla Conferenza Unificata del 27 novembre 2014 che contiene le norme obbligatorie che un centro deve rispettare per essere in grado di occuparsi di queste situazioni. Oltre a ciò, il fondamento di un centro anti-violenza deve essere la convenzione di Istanbul, la quale è stata il primo strumento internazionale giuridicamente vincolante volto a creare un quadro normativo e di tutela delle donne contro qualsiasi forma di violenza. Inoltre, la regola fondamentale per un rifugio è quella di garantire servizi primari ed igienici adeguati per ospitare qualsiasi numero di persone.
All’alba della decisione della regione Lazio di revocare l’immobile a Lucha y Siesta, si sono create mobilitazioni in tutta la regione Lazio e non solo. Tra i primi sostenitori si è posto il gruppo di Non una di meno che ha marciato per le strade delle città più importanti italiane chiedendo di non eliminare la casa. Ma nonostante la mobilitazione delle associazioni e dei suoi oppositori politici, tra cui PD e Alleanza Verdi Sinistra, Francesco Rocca ha siglato nella giornata del 17 ottobre la revoca ufficiale dell’immobile. Ad enfatizzare la sua posizione, ha dichiarato che il CAV era in condizioni igienico-sanitarie non conformi alla 93/2013. In precedenza, il 10 agosto, si notificava che l’edificio non era a norma di sicurezza.
Leggi anche:
Emancipazione femminile e sessualità: la rivoluzione è in atto
Nicola Zingaretti, presidente della regione dal 2013 al 2022, nel 2021 aveva deciso di salvare l’edificio comprandolo all’asta per quasi 2,4 milioni di euro in favore dell’operato del CAV. Da quel momento, oltre ad una casa rifugio, Lucha y Siesta si è occupata anche di formazione e cultura, diventando così uno dei centri più frequentati. Il percorso della casa non è stato facile, tra minacce di sgombero e di chiusura; ma per 15 anni è stata un punto di riferimento per tutte le persone che hanno subìto e continuano a subire violenze di ogni forma.
Nel frattempo, i CAV più vicini hanno iniziato ad ospitare le donne di Lucha Y Siesta. Tra i diritti assunti in un centro anti-violenza, quello fondamentale è la protezione della privacy, regolamentato dai diritti riconosciuti da UE 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio. Tra i documenti che firmano le donne una volta entrate in un centro anti-violenza vi è il punto 7 dell’articolo 4 che dichiara condivisibili i propri dati a: «la persona fisica o giuridica, l’autorità pubblica, il servizio o altro organismo che, singolarmente o insieme ad altri, determina le finalità e i mezzi del trattamento di dati personali». Nel caso delle donne di Lucha y Siesta, l’essere trasferite in un altro centro garantisce la tutela della privacy e della propria storia? Il duro colpo inferto alla casa delle donne di Roma non è che un pugno nello stomaco per tutte le persone che lottano per uscire vive dalla spirale di violenza.
Leggi anche:
Sui femminicidi non è lecito “farsi domande”, cara Palombelli
I numeri sui femminicidi, sulle denunce di stupro e di aggressione sono in aumento rispetto agli anni precedenti. Nel 2022 l’associazione DI.RE ha accolto circa 20mila donne. I dati risalenti ad agosto 2023, invece, hanno evidenziato un aumento del 3% sia di richieste che di denunce. La violenza di genere è reale, le denunce e gli omicidi sono reali. I fatti di Caivano e di Palermo di questa estate sono reali. Dopo i recenti fatti, il 29 agosto è stato lanciato il progetto pilota sull’educazione sessuale nelle scuole per prevenire la violenza di genere. Il Ministro Valditara ha promosso il piano che ha scadenza il 25 novembre. Per questa ragione, quello che ci si aspetta dalle istituzioni è più informazioni e formazioni e non revoche di appalti. Poiché, queste scelte declassano il dialogo, il confronto, l’aiuto e, soprattutto, chiudono gli occhi sulla violenza di genere.
Non abbiamo grandi editori alle spalle. Gli unici nostri padroni sono i lettori. Sostieni la cultura giovane, libera e indipendente: iscriviti al FR Club!
Segui Frammenti Rivista anche su Facebook e Instagram, e iscriviti alla nostra newsletter!