Lo scorso 3 dicembre, la casa editrice milanese il Saggiatore ha pubblicato una nuova edizione de L’iris selvatico (The Wild Iris, 1992) e Averno (2006), raccolte poetiche della poetessa americana e Premio Nobel per la Letteratura 2020 Louise Glück, tradotte da Massimo Bacigalupo e già edite in Italia da Giano e Dante & Descartes rispettivamente nel 2003 e nel 2019.
Queste due raccolte costituiscono un ottimo modo per approcciarsi alla poetessa premio Nobel, nota per uno stile poetico che fa uso di un linguaggio scarno e piano che narra le sue esperienze private di dolore e sofferenza rese poi universali.
Louise Glück in breve
Louise Glück (1943) è originaria di New York. Cresce a Long Island in una famiglia di ebrei ungheresi e russi, assieme alla sorella minore Tereze (1945-2018) (la sorella maggiore è morta quando la poetessa non era ancora nata), il padre Daniel, imprenditore e inventore insieme al cognato Sundel Doniger del bisturi X-Acto, e la madre Beatrice, laureata in francese al Wellesley College in Massachusetts. Nella poesia Memoir, contenuta nella raccolta del 2009 Seven Ages (inedita in Italia) e di cui si riporteranno alcuni versi tradotti da Massimo Bacigalupo pubblicati su “L’indice dei libri del mese”, la poetessa si presenta, infatti, nel seguente modo:
«Nacqui cauta, sotto il segno del Toro.
Crebbi su un’isola, prospera,
nella seconda metà del secolo ventesimo;
l’ombra dell’Olocausto
quasi non ci sfiorò».
Fin da piccola, i genitori la stimolano a scrivere poesie e le raccontano storie della mitologia greca e di Giovanna D’Arco. Di queste storie, i cui motivi l’accompagneranno per tutta la sua produzione poetica, Louise Glück ha dichiarato quanto segue in una sua recente intervista per il settimanale “Sette – Corriere della Sera” a cura di Luca Mastrantonio:
«Tra le storie che mio padre mi raccontava, a me e a mia sorella, oltre ai miti greci, c’era quella di Giovanna D’Arco…Senza la parte del rogo. Ci raccontava che lei sentiva le voci. Per me era una cosa normale, immaginare voci nel silenzio».
L’incontro con la poesia si fa più forte in gioventù, quando Louise Glück soffre di anoressia nervosa, malattia che collega al suo sforzo di rendersi indipendente dalla madre e dalla morte della sorella maggiore e che le farà intraprendere un trattamento psicoanalitico di sette anni, e nel momento in cui alla Columbia University incontra quelli che saranno i suoi mentori in materia di poesia, ovvero Léonie Adams e Stanley Kunitz.
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La vita della poetessa premio Nobel sarà segnata da eventi di crisi come i due divorzi dai mariti Charles Hertz Jr nel 1967 e John Dranow (da cui avrà un figlio, Noah, nel 1973) nel 1996 e la morte del padre nel 1984. Tuttavia, tutta questa serie di eventi, aggiunti ai problemi dell’adolescenza e alla morte della sorella maggiore, portano Louise Glück a scrivere raccolte di grande successo, che le varranno il Premio Pulitzer (1993), il National Book Award (2014) e la nomina a poeta laureato nel 2003.
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La poesia di Louise Glück dimostra come dalla sofferenza si possa trarre la bellezza. Sempre in Memoir, la poetessa ribadisce l’importanza della condivisione del suo dolore attraverso la poesia attraverso la creazione di uno spazio di condivisione universale:
«Avevo una filosofia dell’amore, una filosofia
della religione, entrambe basate su
prime esperienze entro una famiglia.
E se quando scrivevo usavo solo poche parole
era perché il tempo mi pareva sempre breve
come se potesse essere strappato
da un momento all’altro».
Lo stile, le influenze e i temi
Come scrive Luca Mastrantonio, la poesia di Glück è «dura e spietata, personale ma universale, autobiografia che usa le maschere del mito. I suoi versi parlano con i morti, fan parlare i morti, le piante, persino dio». Il linguaggio scarno e preciso, la pregnanza delle immagini mutuate dalle storie sulla mitologia greca e Giovanna D’Arco e il rapporto con il dolore e la morte costituiscono la cifra stilistica di Louise Glück, che unisce le sue vicende personali a quelle del mondo esterno per creare riflessioni di carattere universale e un’esperienza di dolore condivisa lenita dalla forza della poesia.
In tutto questo si nota l’influenza che hanno avuto su di lei poeti come Emily Dickinson e William Blake – citati nel discorso per il conferimento del Nobel – nella predilezione a esprimere la solitudine e a dar voce al silenzio, Rainer Maria Rilke nel ricorso alla mitologia e nel rapporto con il trascendente e il mondo naturale, e la poesia confessionale di Adrienne Rich, Anne Sexton, Elisabeth Bishop e Robert Lowell. Nonostante, però, a differenza di quest’ultimi la poetessa americana non miri a una confessione in pubblico, secondo Roberto Galaverni e il suo articolo del 29 novembre 2020 su “La Lettura”:
«[…] anche per Glück quel po’ di verità a cui aspira la parola poetica deve passare per l’esperienza personale, dunque per i rovelli, i traumi, gli snodi più delicati di una vicenda privata incisa nella psiche come nel corpo».
La verità poetica, dunque, passa per l’esperienza personale, per i traumi e le ferite del corpo, che la scrittura poetica sutura e universalizza. Nel mondo di Louise Glück non vi è consolazione, ma essa si raggiunge rendendo gli altri partecipi della propria esperienza.
«L’iris selvatico» di Louise Glück: l’Eden negato
Per Louise Glück, il mondo naturale ricopre un ruolo fondamentale. Esso, però, non dà consolazione né la possibilità dell’idillio. Ciò è ben espresso nella raccolta de L’iris selvatico (acquista), raccolta che si presenta come un racconto intimo di Glück ambientato nel Vermont, nel New England, tra la primavera inoltrata e l’inizio dell’estate. La raccolta pone al centro il legame della poetessa con il secondo marito, John Dranow, dal quale qualche anno più tardi avrebbe divorziato.
Il mondo naturale di Louise Glück è rappresentato in maniera fredda e desolata: nella poesia che dà il titolo alla raccolta, «il sole debole tremolava sulla superficie secca», la terra è «scura», «rigida», mentre in Neve primaverile la terra «brilla come la luna, come materia morta incrostata di luce». Il giardino di Glück – o in senso più ampio il mondo naturale -, è distante da Dio, il quale non prende parte alle esperienze dell’io lirico, come dimostrano i seguenti versi del terzo Mattutino della raccolta:
«Perdonami se dico che ti amo: ai potenti
si mente sempre perché i deboli sono sempre
spinti dal terrore. Non posso amare
ciò che non posso concepire, e tu non riveli
praticamente nulla».
L’ambientazione nel New England, patria d’elezione del Trascendentalismo di Ralph Waldo Emerson e David Henry Thoreau, è in realtà un luogo in cui Dio è sì presente, ma distante e anche fragile, al punto che appare rassegnato, sbrigativo, e l’io lirico lo apostrofa come «compagno tremante». Il giardino rappresentato da Glück altro non è che un Eden negato: è impossibile, dunque, avere un rapporto completo con Dio, che permette di trascendere i propri limiti fisici e di raggiungere l’eternità.
La raccolta contiene poesie dedicate a fiori come l’iris selvatico, il trillium, il bucaneve e il papavero rosso, che sono portatori di una verità fatta di consapevolezza della fugacità della vita e l’impossibilità di sfuggire al dolore. Ne è un esempio il componimento Fiori di campo:
«l’anima! l’anima! È abbastanza
solo guardare dentro? Disprezzo
dell’umanità è una cosa, ma perché
disprezzare il campo
espanso, il tuo sguardo alzandosi sopra le teste chiare
dei ranuncoli selvatici verso cosa? La tua povera
idea del cielo: assenza
di mutamento. Meglio della terra? Come
puoi saperlo, tu che non sei né
qui né lì, fermo in mezzo a noi?»
Attraverso i fiori, Glück comunica l’impossibilità dell’Eden, dell’eternità della vita e dell’estate, poiché il cielo come la terra hanno vita breve e sono soggetti al mutamento. Dio stesso nella poesia Raccolto afferma:
«quante volte devo distruggere la mia creazione
per insegnarvi
che questa è la vostra punizione:
con un solo gesto vi ho stabilito
nel tempo e nel paradiso».
In questa poesia si fa, inoltre, riferimento all’incendio dei campi, un modo per Dio di immettere l’io lirico «nel tempo e nel paradiso», espressione che nega l’eternità, poiché il termine “tempo” dà l’idea della finitezza della vita e ci costringe ad accettare la nostra mortalità. Nella poesia Ninnananna, Dio afferma che il mondo non ci può regalare una visione perpetua dell’estate, poiché noi umani dobbiamo saper amare «silenzio e oscurità», ovvero l’impossibilità di cercare nella natura sollievo e rifugio dal male del mondo.
«Averno» di Louise Glück: l’inverno senza fine di Persefone
Il dolore e l’inverno sono transitori, poiché il ciclo delle stagioni continua: tornerà l’estate e con essa la vita. Nemmeno questa idea è, però, consolatoria per Louise Glück. Ne è la prova Averno (acquista), raccolta del 2006 che prende il titolo dal lago vulcanico a pochi chilometri da Napoli che secondo la mitologia consentiva l’accesso all’oltretomba. In questa raccolta, molto forte è il richiamo al mito di Persefone, che attraversa il regno dei morti per tornare sulla terra. Come Persefone, anche l’io lirico compie un percorso analogo, ma tornerà segnata dal dolore delle cicatrici lasciate dallo scorrere del tempo e dalla violenza del passato:
«La ragazza che scompare dal lago
non ritornerà mai. Ritornerà una donna,
cercando la ragazza che era».
Già alle porte dell’Averno – o meglio, all’ingresso dell’autunno e dell’inverno poi -, è negato all’io lirico ogni possibilità di ritrovare la vita. Nella prima poesia della raccolta, ovvero Le migrazioni notturne, i morti non vedranno «le bacche rosse del sorbo selvatico» e «le migrazioni notturne degli uccelli», mentre in Ottobre le canzoni del mattino sono «cupe, ora, di desolazione e angoscia», e la luna sorge «da dentro l’amara disgrazia della terra, freddezza e sterilità». In Paesaggio, invece,si parla di «silenzio immenso», «nessun vento. Nessun suono umano», «sole freddo» e «terreno secco, incolto».
Entrare nell’Averno vuol dire entrare nella notte della vita: l’inverno, il dolore, ma anche l’esperienza della morte, come l’anoressia di cui soffrì Louise Glück da giovane. L’esperienza dell’inverno ci mette di fronte all’impossibilità di superare la violenza e la sofferenza, eternamente presenti anche durante la stagione dell’estate e del ritorno alla vita. La luce della stella di Venere in La stella della sera, per esempio, è scura, connotata dalla morte, e illumina la terra come «superficie vuota». Essa si fa, inoltre, sempre più distante, come nel caso di Telescopio, dove:
«Ti rendi conto dopo
non che l’immagine è falsa
ma la relazione è falsa.
Vedi di nuovo quanto lontana
ogni cosa è da ogni altra cosa».
Anche nella notte è negata la speranza della luce e della vita. Le stelle esistono, così come si poteva percepire la presenza di Dio ne L’iris selvatico, ma anche qui non c’è consolazione dal mondo esterno. Non vi è, dunque, sicurezza nemmeno nell’oltretomba, come dimostrano i seguenti versi della poesia omonima alla raccolta,i quali costituiscono una risposta dell’io lirico a delle ragazze che si chiedono se nei pressi dell’Averno sia possibile sentirsi al sicuro:
«Io dico, al sicuro come da qualsiasi parte,
il che le rende felici.
Intendo dire che niente è al sicuro.
Sali su un treno, scompari.
Scrivi il tuo nome sul finestrino, scompari.
Ci sono luoghi come questo ovunque,
luoghi in cui entri come ragazza,
da cui non ritorni mai».
L’io lirico è sicuro della caducità della vita e dell’esperienza della morte, con cui è entrato in contatto come Persefone, che tornata sulla terra cerca l’innocenza perduta. Il ritorno di Persefone sulla terra sembra presagire a un ritorno della vita, alla presenza dell’Eden che ne L’iris selvatico è negato. In realtà, nell’ultima poesia della raccolta, ovvero Persefone l’errante, il ritorno di Persefone – e dunque della primavera – è solo apparenza:
«L’inverno finirà, la primavera ritornerà.
I venticelli irritanti
che amavo tanto, gli idioti fiori gialli –
La primavera ritornerà, un sogno
fondato su una falsità:
che i morti ritornano».
Persefone continuerà a vagare fra «terra e morte/che sembrano, infine,/stranamente simili». Fra terra e morte vi è contiguità, così come fra inverno ed estate, poiché il dolore e la mancanza di vita continuano anche nei momenti di luce, e soprattutto nei sogni, come nella poesia Fuga, che narra del sogno dell’io lirico risalente all’infanzia. Un sogno fatto di ferite e dolori, che si trasformano, però, in poesia:
«Poi fui ferita. L’arco
adesso era un’arpa, con la corda che mi tagliava
profondamente il palmo. Nel sogno
Insieme ferisce e risana la ferita».
A differenza di Persefone, l’io lirico riesce a tramutare la ferita in poesia. La consolazione è data dalla parola poetica: chi la legge è l’Orfeo che chiede all’io lirico di aiutarlo a trovare la sua Euridice, ovvero a consolarlo in una ricerca impossibile della vita eterna e priva di dolore. La sicurezza che non si trova nel mondo esterno è da trovarsi nella parola poetica, che crea un legame tra la sofferenza dell’io lirico e quella degli altri. Qui si nota l’eco dell’ultima strofa della poesia I gigli bianchi, contenuta ne L’iris selvatico:
«Zitto, amore. Non mi importa
quante estati vivo per ritornare:
in quest’unica estate siamo entrati nell’eternità.
Ho sentito le tue due mani
seppellirmi per sprigionare il suo splendore».
La vera estate sta nella condivisione dell’esperienza individuale e del suo dolore, ma soprattutto della parola poetica, che permette di superare la paura dell’imminente fine della vita.
Conclusione
Parafrasando la giuria del Nobel, l’austera bellezza della poesia di Louise Glück rende universale l’esperienza individuale. La sua poesia è un balsamo contro la fugacità della vita e la sofferenza che caratterizzano l’umano. Leggere le poesie de L’iris selvatico e di Averno vuol dire ascoltare una voce amica, che accoglie il nostro bisogno di consolazione e che ci aiuta ad affrontare il lungo inverno della vita, per il quale anche momenti di luce come l’estate sono segnati dalla morte e dalla caducità del tempo. Se ci sono negati l’Eden e l’eternità, la parola poetica di Louise Glück ci concede la consolazione nella consapevolezza di un dolore universalmente condiviso che ci rende meno soli.
Fonti:
- Louise Glück, Memoir, traduzione di Massimo Bacigalupo contenuta in Il Premio Nobel per la letteratura alla poesia spoglia di Louise Glück (link), pubblicato il 03/12/2020.
- Luca Mastrantonio, Louise Glück. L’arte dopo la catastrofe, pubblicato su “Sette – Corriere della Sera” l’8/01/2021. Consultabile in: https://www.ilsaggiatore.com/wp-content/uploads/2021/01/Sette_Gluck_8.01.2020.pdf
- Roberto Galaverni, Louise Glück. Tutta la vita in due sole stagioni, pubblicato su “La Lettura – Corriere della Sera” il 20/11/2020;
Immagine in evidenza: Louise Glück. Fonte: Repubblica.it
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