Il rock’n’roll e Lou Reed entrano in contatto da subito, quando quest’ultimo è poco più che un bambino: è questo incontro a permettergli di diventare l’artista poliedrico e dalla carriera multiforme del Giorno Perfetto (Perfect day). Spesso ritenuto troppo al limite nel suo essere ironico e selvaggio, a volte troppo crudo di fronte alla critica e alla vita stessa, Reed ha sempre celato un lato mistico e irresistibile dietro ai suoi occhi neri.
Di certo è passato alla storia della musica, sia da solo sia con la sua band, i Velvet Underground. Un’altra certezza è il suo essere un artista visuale, influenzato prima dai grandi pittori poi dai nuovi artisti della scena pop. Tra i bassifondi metropolitani, dove cammina avanti e indietro per cercare una strada e una spiegazione, c’è tutto il suo essere artista, completo e a più livelli, in grado di diventare poeta non soltanto con le parole, ma anche con l’uso di altre concettualità, proprie della fotografia e della musica.
Il 2 marzo 1942, all’ospedale di Brooklyn, un bambino di famiglia ebrea, con origini russo-polacche viene registrato all’anagrafe come Lewis Allan Reed. Un bambino come tanti altri ma con una predisposizione, innata e accentuata, verso il rock’n’roll. Appena impara a suonare la chitarra incide il suo primo singolo, in perfetto stile doo-wop, con una band chiamata The Shade.
Un artista in crescita – sotto gli occhi ancora inconsapevoli di mamma e papà che faticano ad accettare l’atteggiamento ribelle – con le pose effeminate e le nottate brave ad ascoltare la musica del diavolo. I genitori, esasperati dai suoi comportamenti, decidono di rivolgersi a una clinica specializzata e il ragazzo è costretto ad accettare le loro volontà: la “cura”, in voga all’epoca, per “casi” come il suo, è l’elettroshock, così il giovane Lewis viene sottoposto a due settimane di scariche elettriche intense che, come più volte ha ricordato, gli fanno perdere la memoria e l’orientamento. Per mesi non sarà più in grado di leggere.
Queste due settimane lo cambiano profondamente, non solo non facendolo guarire, ma rendendolo una delle figure più influenti della scena artistica di fine anni ’60.
Si iscrive alla Syracuse University allontanandosi da casa e dalla cittadina di Freeport. È il periodo del suo primo amore, della sua crescita artistica, personale e anche il momento in cui entra in contatto con artisti e tendenze musicali diversi. È il periodo dell’eccesso, delle prime volte, delle esperienze omosessuali e trasgressive, che, unite alla sua passione per i poeti maledetti, plasmano un’immagine e una personalità adatta alle poesie beat inserite tra la vita di strada, le droghe, il sadomasochismo e altri soggetti, tutti evidentemente tabu per l’epoca.
Dopo la laurea, Reed si sposta a New York e diventa un compositore pop professionista per la Pickwick Records. Non passa molto tempo però che lascia il lavoro dedicandosi completamente al progetto di una band d’avanguardia con il suo nuovo amico John Cale, a cui si aggiungeranno Sterling Morrison e Maureen Tucker. Si formano così i Velvet Underground, che avranno un ruolo fondamentale, costruendo un suono e un tipo di approccio che continuano a essere imitati in tutto il mondo.
Frequenta la Factory di Andy Warhol, e proprio Warhol in quegli anni diventa il manager dei Velvet. Sono anni di grandi influenze, di collaborazioni e scoperte, che però diventano per Reed un’insofferenza sempre più pressante. E sono proprio questi i The Velvet Years, sfrenati e irradianti, descritti dal fotografo Stephen Shore, che si immerge nella nuvola rock’n’roll e nella sua atmosfera.
Dopo qualche album e le innumerevoli tensioni nel gruppo, Reed decide di abbandonare la scena e torna a Freeport dai genitori. Parlamo dei primi anni ’70, il suo periodo più buio che porta però alla sua rinascita a solista e artista completo. Il suo ritorno alla musica porta il segno di Walk on the wild side e Perfect day dell’album Transformers che diventa subito un successo mondiale. L’album è co-prodotto con David Bowie e segna anche la nascita della loro grande amicizia.
Intanto il suo è un rapporto complesso con il successo, desiderato e odiato dallo stesso artista. Questi sentimenti nel 1973 portano al suo capolavoro maledetto: Berlin, un album dai contorni scuri che racconta di una coppia di tossicodipendenti americani trasferiti a Berlino.
«Per parafrasare Willie Nelson: “il novanta per cento delle persone nel mondo finisce con la persona sbagliata. È questo che fa girare il disco”. Il disco di Lou girava per amore e anche altre cose – bellezza, dolore, storia, coraggio, mistero».
Dalla lettera della moglie Laurie Anderson
Lou Reed è al vertice della sua creatività, o forse è solo all’inizio. Il suo essere artista non si limita agli accordi di una chitarra e aspira sempre di più a realizzare, con ogni mezzo possibile, il Grande Romanzo Americano – come lui stesso era solito affermare – dove ogni disco è un capitolo di una storia molto più grande. La sua è sempre un’altra storia da raccontare, un modo diverso di vedere il mondo, di sentirlo e di trasmetterlo. Questo si percepisce ascoltando l’intervista in viaggio di Jian Gomeshi, pubblicata dalla testata The Indipendent. In particolare, quando parla del mondo visto attraverso la macchina fotografica parla di un mondo migliore: guardare attraverso un mirino gli è sempre piaciuto e la sua avventura con la luce gli ha permesso di guardare sempre con una nuova prospettiva. Nell’intervista chiama questa sua attività «passeggiate fotografiche» che lo proiettano in un mondo diverso, quasi parallelo e con la macchina fotografica riesce a soffermarsi, e prestare attenzione, anche alla più piccola delle cose. La fotografia per lui è in grado di descrivere l’ordinario ed è anche un modo di comunicare analogo alla chitarra, perché entrambi modi di espressione istantanea.
Negli anni passa dall’essere immortalato da grandi fotografi della scena rock’n’roll, come Mick Rock, a interpretare a suo modo lo stesso mondo sfrenato e mistico. Così descrive New York con grattacieli che sembrano rubare il cielo e le luci tremanti nel buio della notte.
La sua incredibile avventura con la luce (My Adventure with Light), iniziata negli anni ’60 con l’amico Warhol, e finita solo con la morte nel 2013, si è tradotta nel suo capolavoro visuale: Rimes Rhymes: A Collection of Photographs by Lou Reed.
L’immagine fotografica diventa poesia in rima come se i suoi fossero monologhi a tempo. In inglese i due termini, rimes e rhymes, esprimono rima e poesia: la poesia è anche ritmo e l’immagine, a sua volta, diviene parola riscritta.
«I armed myself with a variety of devices for all of my goals in my quest for joy and beauty. Nothing looks like it was captured just just one lens. The reality is different for every viewer. Everything is exciting to see. I’m sure, God owned a Leica».
«Mi sono armato con una varietà di dispositivi per tutti i miei obiettivi nella mia ricerca di gioia e bellezza. Nulla sembra come se fosse stato catturato solo un solo obiettivo. La realtà è diversa per ogni spettatore. Tutto è emozionante da vedere. Sono sicuro, Dio possedeva una Leica».
Lou Reed, New York, Aprile 2012
Con Lou Reed siamo di fronte a musica e fotografia che si fondono e creano un mondo fantastico, visuale e pieno di frequenze ordinate.
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