Per parlare de l’Ora più buia, ultima fatica di Joe Wright, già regista di Pride and Prejudice e Anna Karenina, è necessario capirne la natura. Non il genere, o la tipologia, bensì proprio la natura, ovvero il movimento di ideologie e visioni come flora e fauna di un cinema complesso ed indelebile.
Cosa non è
L’Ora più buia, racconto ambientato nei giorni precedenti al salvataggio di Dunkerque, potrebbe infatti apparire come contenitore filmico di un racconto storiografico, ma non potrebbe esserci visione più errata. Il cinema storico è spesso un bagno tra la folla, tra la massa che si fa indistinta e conduttrice di uno spirito più ampio ed assoluto. Cosa che qui vediamo, certo, ma nella forma di raccordo tra un primo piano di Churchill e l’altro. Perché l’essenza storica, databile e documentabile di questo film non è possiede mai la massa sufficiente per oscurare l’idea prima del suo regista: raccontare un uomo, ancor prima della storia.
Ed è questa la chiave capace di aprire, ed a tratti forzare, tutte le realtà ramificate di questo grande tempio dalla silhouette storiografica, ma dalla realtà umana. Dunque un Biopic, il cui protagonista è il grande uomo narrato e narrante; l’attore. Un Gary Oldman che sovrasta ogni istante, lasciando dimenticare la guerra, la realtà, ed ogni cosa.
̶C̶o̶s̶a̶ chi è
Questo è il suo film, o meglio il loro. Di Churchill e Gary Oldman. Incastrati e incastonati in un’interpretazione che è l’unica vera realtà filmica del racconto. Le composizioni fotografiche fanno così da soffice contorno, le scelte d’illuminazione accerchiano, sottolineano, senza mai però scrivere o eliminare ciò che l’attore, il centro, il pianeta unico ed indiscutibile di questo film, già non narri.
Dunque un cinema dell’uomo incarnato, dell’attore come realtà corporea con cui mostrare parole senza cui l’intera pellicola crollerebbe. Ma è un gioco vacuo quello di immaginare gli infiniti modi per far crollare un film la cui unica colonna appare troppo solida ed inattaccabile.
Churchill si sveglia ed è il 1940. Fa colazione e Hitler avanza. Si veste ed il Belgio crolla. La vita dell’uomo, di quest’uomo, è così l’unica cronologia a cui Joe Wright ci invita a guardare. Mostrando e rovesciando la figura, in modo che ogni sua paura sia improvvisamente patrimonio artistico mosso dall’attore e perno unico di un cinema monostrutturale.
“Words and action change the world”
Se le citazioni rischiano spesso di essere la linea guida di un cinema retorico e storicamente autoreferenziale, ne l’ora più buia fungono invece da perfetta sinossi del racconto stesso. Il loro ruolo si amalgama infatti perfettamente all’intenzione di creare un’opera che, attraverso la narrazione dell’uomo e della parola, illustra la forma dell’Homo Politicus.
Le orazioni di Churchill, pedissequamente citate, riverberano distintamente per quello che da film si fa vero e proprio elogio al discorso pensato, voluto e sentito, e così, di rimando, ad un’altrettanta politica. Paradosso vuole però che sia qui che il film rivela la sua realtà più interessante e controversa: il silenzio.
Perché se da un lato il cinema della parola veste alla perfezione la grossa e buffa forma di un Churchill in costante riflessione, dall’altra rivela la forza incontrastabile di un potente silenzio che Joe Wright dirige tra una battuta e l’altra, quando si svuota e riempie lo spazio di ogni cambio d’inquadratura, di prospettiva, di intenzione. Brevissimi istanti di silenzio in uno spazio umano lungo un infinito, dove si cerca di infilare politica e guerra, ma soprattutto umanità e paura nella figura del politico come simbolo di resistenza.