Ci dicono che i «mostri» hanno origini nord-africane o arabe, si sono radicalizzati in carcere e sono deliranti fanatici dell’Isis. E i populismi, che vanno a nozze con le semplificazioni, cavalcano la polarizzazione «noi buoni» / «loro cattivi». Dici Charlie Hebdo, Bataclan, Nizza e i ricordi sono ancora vividi, riattivati purtroppo dai recenti fatti di Strasburgo.
È importante allora dissipare il fumo di una memoria labile e tornare a una data spartiacque: 22 luglio 2011, quando un fantasma che da decenni percorre l’Europa dal suo interno si è manifestato in tutta la sua violenza. Parliamo della strage nell’isola di Utøya, Norvegia: settanta minuti di terrore, un colpo al minuto, 69 giovanissimi uccisi. L’autore della strage ha la pelle bianca, capelli biondi e spietati occhi azzurri, è un norvegese doc di 32 anni, figlio di una società ricca e dal welfare avanzato. Non grida «Allah Akbar», ma nel suo delirio di onnipotenza ispirato al nazismo si proclama un soldato politico al servizio della civiltà occidentale, che vacilla sotto i colpi dell’immigrazione e del multiculturalismo. La sua opera di «redenzione» è pianificata con lucidità: prima colloca una bomba al palazzo del governo di Oslo, un diversivo che provoca otto morti; e poi, travestito da poliziotto, si reca sull’isola di Utøya che ospita un campo estivo per giovani organizzato dal partito laburista. Su questi ragazzi inermi si scatena la furia omicida del «mostro di Utøya» Anders Breivik, che sta scontando la sua pena in carcere.
Genesi del testo e scena
Nel 2013 il giornalista italiano Luca Mariani scrive Il silenzio sugli innocenti, per riaccendere l’attenzione su quella mattanza «figlia di uno di noi». L’immagine di un’Europa vittima di attacchi esterni è molto più comoda, anche politicamente, e una coltre di oblio si è presto stesa su questo episodio, sconvolgente per le coscienze europee. Il dovere anche civile di stringersi intorno al ricordo di Utøya viene colto dalla sensibilità della regista Serena Sinigaglia, fondatrice e direttrice di ATIR (il suo Teatro Ringhiera è chiuso per restauri e alcuni teatri milanesi per solidarietà ne ospitano le produzioni), che affida a Edoardo Erba il compito di scrivere il testo. Ne nasce uno spettacolo per due attori (Mattia Fabris e Arianna Scommegna) che dal 2015 commuove l’Italia.
La bellissima scena è opera di Maria Spazzi: il palco è disseminato di specchi infranti, da cui emergono ceppi di tronchi, su un fondale nero e spesso inondato dal fumo. Negli specchi si riflette un’umanità fragile, che scopre il crollo del mito della Scandinavia come regno di pace, e di Utøya come il posto più sicuro del mondo. Le brume e i tronchi rinviano certo ai paesaggi nordici, ma anche alle tante giovani vite spezzate.
Il testo è ben congegnato, fin dall’incipit: l’attrice descrive il norvegese-tipo: bello, elegante, emana forza e tranquillità. Si parla però di… un gatto. Eppure quell’ «abile cacciatore, che non sbaglia un bersaglio» mette i brividi: quotidianità e tragedia si sovrappongono, con delicata ironia.
Il movimento testuale è dato dall’intreccio di tre storie: una coppia della buona borghesia, impegnata nel quotidiano gioco al massacro; due poliziotti, il comandante fissato con il regolamento e prevaricatore sulla collega e infine fratello e sorella, caratterizzati dalla tipica spigolosità campagnola e la disabilità di lui. Vite ordinarie sconvolte improvvisamente dall’inimmaginabile.
I cambi di scena, nei passaggi da un ruolo all’altro, sono lasciati alla gestualità degli attori: una giacca sulle spalle, un braccio anchilosato, una camminata appesantita, ed eccoli trasformati negli altri personaggi. Potente come sempre l’interpretazione della Scommegna, nei trapassi vocali e di energia corporea, ma anche Fabris si muove con agio nei tre ruoli, sfruttando anche la dinamica spaziale.
Il razzismo xenofobo è un fiume carsico che affiora per gradi nelle tre storie e, anche se resta racchiuso nell’orizzonte delle parole, rivela che il sospetto per l’«altro» pervade tutte le classi sociali. Appena cominciano a circolare le notizie, l’equazione «attentato=terrorista islamico» è la più ovvia, e si scatena quindi il balletto degli stereotipi.
L’incredulità e la sorpresa furono i due alleati più preziosi di Breivik nel suo progetto di mattanza. Una bomba a Oslo? Impossibile, si saranno sbagliati: sarà Baghdad. Spari? Sarà lo scherzo di un buontempone. Il tic-tac estenuante dell’attesa si mescola al ritmo tragico dei colpi esplosi sull’isola, che arriva sulla scena come eco confusa e lontana, ma sempre più straziante per le coscienze.
Il tema della responsabilità
Ciò che interessa a Erba-Sinigaglia non è documentare le tappe del massacro o indagare i perché dell’azione di Breivik (fra l’altro mai nominato), ma le ricadute sulle persone comuni: è un invito a riflettere sul tema della responsabilità. Ad esempio, i poliziotti sono fermi sul molo davanti all’isola: intervenire o attendere gli ordini dalla centrale? Durante l’emergenza regole e procedure possono saltare o devono essere applicate con maggiore rigore, per evitare il caos? Agire d’impulso significa eroismo, e tardare significa complicità? Facile il giudizio manicheo dalla nostra poltrona; di fronte alla tragedia la vista diventa opaca, come quelle nuvole di fumo che si alzano nella scena.
C’è poi anche la responsabilità figlia dell’indifferenza, nella convinzione egoistica che badare ai fatti propri sia sempre la cosa migliore. «Buongiorno-Buonasera-Finito!» è il ritornello dei fratelli contadini. Se poi però scopri che il tuo vicino di casa era Breivik e ha progettato il suo piano criminale proprio sotto i tuoi occhi, ti senti suo complice. Ma è un attimo: il rimorso per «non essersi impicciato», cede alla regola del «rispetto» in rapporti umani retti da una corretta e gelida formalità.
Il perbenismo radical chic è la maschera ipocrita di relazioni costruite come una ragnatela sul nulla: giochi di potere, disperazione, sarcasmo. Quando scatta la potenziale tragedia nella famiglia della buona borghesia (forse la figlia è a Utøya), esplodono tutte le tensioni, l’attesa straziante sgretola i pochi brandelli di umanità rimasti, fino allo scioglimento, quasi grottesco.
Nel finale, forse un po’ troppo tiepido, certi conflitti vengono sbrigativamente risolti in abbracci facili a coprire il terrore che ha scosso le coscienze. Ma anche se si cercherà riparo dietro il muro di gomma degli alibi e della recita quotidiana, nulla sarà più come prima.
Per chi volesse approfondire: Utøya al cinema: nel 2018 sono usciti due film sulla strage. Lo sconvolgente U – July 22 del regista norvegese Erik Poppe, che si concentra sul punto di vista delle vittime con l’uso esclusivo di una camera a mano e 22 luglio, regia di Paul Greengrass, con un triplice focus (attacco, soccorsi, processo a Breivik) – trailer:
Utoya
testo di Edoardo Erba
regia di Serena Sinigaglia
con Arianna Scommegna e Mattia Fabris
co-produzione ATIR – Teatro Ringhiera e Teatro Metastasio di Prato
15-16 dicembre 2018, Teatro Gerolamo, Milano
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