Nel nuovo film Mr.Holmes – il mistero del caso irrisolto firmato Bill Condon, Sherlock Holmes, il detective più famoso del mondo, dopo aver abbandonato la sua professione ed essersi ritirato in campagna, trascorre una vita piuttosto tranquilla e monotona alle prese con la lotta contro le difficoltà della senilità e la perdita della memoria. Rimane, però, un piccolo dettaglio su cui far luce relativo al modo piuttosto sbrigativo con cui ha concluso la sua carriera da investigatore privato. La trama è condita da un non ben chiaro viaggio in Giappone, un disastro con le api della sua coltivazione e dall’amicizia del piccolo Roger, il figlio della sua domestica.
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Il detective (interpretato dal sorprendente Sir Ian McKellen) portato in scena da Bill Condon è assai differente da quello ritratto nei racconti del vecchio compare John Watson: non ha mai portato l’iconico berretto irlandese, non fuma la pipa, non sopporta vedere le storie che parlano di lui al cinematografo e, soprattutto, è tratto non dai celebri racconti del suo ideatore Sir Arthur Conan Doyle, bensì dal romanzo A slight trick of the mind (2005), scritto da Mitch Cullin. Si presenta, dunque, come uno Sherlock Holmes più “umano” rispetto a quello che tutti conoscono. Questa è la prima operazione di scarto dal mito che il regista compie per approdare a un realismo ipotetico, che caratterizza tutta la pellicola: paradossalmente, decostruisce l’intera mitologia innalzatasi intorno alla figura del detective per poi riaffermare il potere della leggenda sulla realtà.
Bill Condon propone dunque su due differenti piani temporali a cavallo delle due guerre mondiali – il primo negli anni Venti, mentre il secondo negli anni Quaranta – due diversi ritratti di Sherlock Holmes: quello del 1947 si presenta inesorabilmente invecchiato, mangia pappa reale e si reca in Giappone alla ricerca del pepe del Sichuan che dovrebbe arrestare l’incessante perdita della memoria; mentre quello degli anni Venti, è ancora in piena attività e non accetta la risoluzione proposta da un racconto di Watson dell’ultimo misterioso caso riguardante una donna, che ha finito per macchiarlo a vita. Tormentato da quest’ultima indagine legata ad un guanto femminile da poco ritrovato, il vecchio Sherlock Holmes proverà a rivivere quei giorni e a seguire le tracce di quell’ultimo caso, che aveva causato il suo esilio auto-imposto in un cottage sulla costa meridionale del Sussex.
Il commovente Ian McKellen esibisce un vasto repertorio di anzianità – boccheggia, ha il respiro affannato, guarda nel vuoto, ha la bocca spalancata perché necessita di ossigeno, ha le gambe pesanti e si appoggia ad un bastone e arranca – giungendo ad umanizzare colui che è sempre stato “disumano“, intelligente, freddo, cinico e glaciale nella gestione dei rapporti umani e fedele alla logica. L’attore porta dunque in scena se stesso e il suo mestiere: l’esagerazione della mimesi e la sostituzione tra personaggio – Sherlock Holmes, quello che ci si illude di guardare – e il suo interprete, ciò che la prestazione di Ian McKellen ricorda al pubblico cosa in realtà sta vedendo. Mentre Bill Condon si avvia nel distruggere il mito di Sherlock Holmes privandolo del famoso intuito e sottraendolo delle sue capacità investigative, pone il detective di fronte ad un bivio: scegliere la verità o la leggenda. Nel corso dell’indagine e della scoperta di se stesso Sherlock Holmes scoprirà che forse la soluzione del mistero non dev’essere svelata e, anzi, necessita di essere coperta con una bugia.
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Il pensionato Sherlock Holmes, in grado di provare sentimenti e di piangere, portato in scena da Bill Condon stupisce e allo stesso tempo conquista il pubblico proprio per la sua lontananza dal modello di Arthur Conan Doyle: un Holmes, dunque, mutato dall’immaginazione stessa di Watson e riproposto in chiave senile, che dopo una vita costellata da intrighi e misteri, trascorre una mesta, elementare ed appagante terza età.
Nicole Erbetti
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