Italia desnuda. Percorsi di resistenza nel Paese del cemento. Si intitola così il piccolo saggio del 2013 di Francesco Vallerani, professore di Geografia dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, edito da Unicopli per la collana Lo scudo d’Achille. Francesco Vallerani affianca da sempre lo studio della geografia storica ad attività di sostegno a movimenti e associazioni ambientaliste: attualmente collabora con vari sodalizi impegnati per la tutela del bene comune, come Italia Nostra, FAI, WWF, Lega Ambiente e alcune reti di azione popolare. Vallerani è stato inoltre tra i primi sostenitori del Movimento nazionale Stop al Consumo di Territorio e dedica particolari energie all’analisi dell’evoluzione recente dei quadri ambientali della diffusione urbana. È dunque un analista di paesaggi: da quelli storici a quelli derivati dalle più recenti e tumultuose evoluzioni che tanto hanno trasformato il nostro paese.
L’approccio della sua analisi è quello della geografia umanistica, che associa ai dati gli elementi culturali e quelli emozionali, sociali e soggettivi. La tesi fondamentale è quella che sostiene un inevitabile progressivo denudarsi della bellezza del territorio se all’indignazione di chi ne vive lo stupro segue la rassegnazione e non l’impegno attivo. L’obiettivo è quindi quello di una geografia impegnata, tesa a rendere dicibile il degrado e insieme contribuire a resistergli e alla decostruzione delle cause antropologiche e storiche che ne stanno alla base. Necessario per il geografo è assumere un atteggiamento empatico, una osservazione partecipata, il contatto diretto con gli eventi. È probabile infatti che nell’immediato futuro la popolazione italiana si trovi a dover fare i conti con problemi ambientali e sociali che stanno alterando, secondo Vallerani, non solo il vivere quotidiano ma anche, e soprattutto, i nostri meccanismi di percezione da cui deriviamo la capacità di interpretare e rielaborare la realtà. Quello che va combattuto è l’assuefazione, che genera indifferenza.
Il primo capitolo Vallerani lo intitola provocatoriamente Verso il baratro. Qui parte dal concetto di paesaggio del dolore, già utilizzato dai geografi per descrivere la condizione del Belpaese di epoca Medievale ma oggi ancora valido: migrazioni di popoli, crisi di valori, ricerca affannata del nuovo, contestazioni. L’idea è che esista una stretta correlazione tra il definirsi di veri e propri paesaggi della paura, i paesaggi del cemento, e il proliferare nella popolazione di stati d’animo negativi, nevrosi date dal continuo cambiamento visivo dei contesti ambientali del vivere quotidiano. Il paesaggio infatti è l’insieme dei luoghi senza i quali non si può vivere, con risorse materiali e sentimentali. Habitat, rifugio, protezione dai pericoli, supporto e sfondo alla propria soddisfazione esistenziale. I paesaggi della paura sono il segno della rottura di questo equilibrio, causa di una percezione di continua insicurezza e inefficacia della qualità del proprio ambiente. Quello di cui si parla è lo scempio dei punti di riferimento nelle proprie geografie quotidiane, l’annullamento dei legami con lo spazio vissuto e delle radici culturali e affettive, l’impoverimento della condivisione sociale. Quello che Zygmunt Bauman chiama “la modernità liquida“: il fluire rapido delle forme sociali e dei luoghi del vivere, che lasciano senza strumenti certi per interpretare la realtà, la chiusura nella individualità.
Per Vallerani oggi regna sovrana l’indifferenza verso i luoghi e la loro tutela, perché le principali azioni della giornata possono svolgersi qui come altrove e i rapporti interpersonali non hanno più bisogno dello spazio fisico, sono favoriti dalla rete. È sempre meno il tempo per affezionarsi a ciò che ci circonda, anzi questa è una accortezza involontaria: non affezionarsi al paesaggio per evitare dolorose lacerazioni, svuotamento di fronte al suo inevitabile sfruttamento. L’attaccamento ai luoghi è compromesso dalle rapide trasformazioni economiche e sociali, si rompono i legami di intimità con l’individuo, il lungo percorso di adattamento dell’uomo all’ambiente. Essere malinconici è inevitabile nel Paese del cemento: perdere i luoghi è perdere la possibilità di pensare al proprio contesto e pensarsi in un proprio contesto, perdere in bellezza. Ma l’homo faber non ammette malinconici.
Sulla scorta di queste considerazioni emergono i dati storici, un breve excursus chiaro e semplice che traccia la storia della speculazione edilizia in Italia a partire dai decenni che seguirono l’Unità. Da questo momento infatti anche il Belpaese entra nella modernità, partecipe dell’euforia tecnica. Con il Novecento si forma l’idea che la natura sia relegata a una mera sfera utilitaristica a cui fa da contrasto il rinnovato mito romantico della contemplazione del paesaggio, della patria intesa come luogo primitivo e nostalgico. Questa associazione di idee si limita però, secondo l’autore, a mero sentimentalismo, ritardando la presa di coscienza della necessità di pianificare e conservare i beni ambientali.
Con la fine degli anni ’40 il paese del cemento esiste già e scatta il meccanismo dell’amnesia e del disimpegno. Cemento significa degrado, spreco di suolo, assalto alle campagne, mafia e abusivismo. L’Italia del nuovo millennio non fa che accentuare queste tendenze, crede che ricorrere al cemento sia un modo valido per uscire dalla crisi, fa del paesaggio mera economia. Ciò che infatti spaventa di più è l’impoverimento di chi vive in luoghi privati di senso, l’omologazione, la mancanza di memoria territoriale, il prevalere delle linee economiche su quelle relazionali. A questa logica del fare fanno appello l’alta velocità degli anni ’80, il piano casa del 2009, le opere inconcluse: «I nostri occhi si sono abituati a veder scomparire gli spazi, l’orizzonte. Si sono abituati a non vedere.»
Dagli anni ’50, anni del boom economico, la consapevolezza dello sfacelo si fa più rara ed è affidata allo strumento della letteratura, in cui la denuncia civile si coniuga con l’efficacia del racconto. Italo Calvino in primis, con La speculazione edilizia del 1963, testo cardine per delineare i protagonisti di quella che viene definita «rapallizzazione» dei paesaggi della Liguria. Termine derivato da Rapallo da cui partì la rapida cementificazione che rispondeva alle nuove esigenze di villeggiatura della piccola borghesia. Ma anche termine che rimanda, almeno foneticamente, al “rapace”, al predatore che fa razzie. Un discorso letterario attento soprattutto alla metamorfosi delle percezioni collettive, che analizza i caratteri del turismo di massa, vero protagonista dei fatti narrati con sguardo autobiografico. Un tono ironico che lascia spazio al disagio di chi ha perso il potere rasserenante dei propri luoghi di vita.
E poi Pier Paolo Pasolini, che con Ragazzi di vita dipinge gli scenari suburbani che deflagrano le periferie di Roma, in un continuo contrasto tra la forza della campagna e la malattia della città. Senza dimenticare Il pianto della scavatrice. Una personificazione in poesia del disagio provocato dalla frenesia del fare, dal fare non progettato e mai concluso, il disagio dei lavori in corso provvisori che sconvolgono lentamente gli scenari precedenti:
«disamore, mistero, e miseria/dei sensi, mi rendono nemiche/le forme del mondo, che fino a ieri/erano la mia ragione d’esistere./Annoiato, stanco, rincaso, per neri/piazzali di mercati, tristi/strade intorno al porto fluviale,/tra le baracche e i magazzini misti/agli ultimi prati./Lì mortale/è il silenzio».
La scavatrice piange ciò che ha fine e ricomincia, piange la continua distruzione-creazione, ciò che muta perché deve essere per forza migliore, i morsi inferti al paesaggio.
A concludere il testo, che coniuga sapientemente letteratura e considerazioni geografiche e sociologiche, c’è un esempio pratico di landscape of fear: l’entroterra che circonda Venezia, emblema della morte del paesaggio, conseguenza diretta della mancanza di giustizia ed etica ambientale, nonché del sonno dell’opinione pubblica. Nel paese del cemento si vive male, si rischia in salute. Nel paese del cemento si sviluppa un accentuato individualismo e nascono i non-luoghi, ossia luoghi ibridi privi di valore identitario. Nel paese del cemento la percezione estetica torna primordiale e acritica, si capovolgono le priorità esistenziali. La somma che ne trae Vallerani è dunque pessimista: è in atto una sorta di mutazione antropologica, di asfaltatura delle menti, di assuefazione al brutto. Ci si adatta per sopravvivvere o ci si lascia sedurre dalla logica del consumo. O si resiste?
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