Secondo Hegel, la filosofia consiste nell’apprendere, nella forma del concetto, il proprio tempo storico. Ciò significa che l’operazione peculiare messa in atto dal filosofo è quella di riflettere, insieme, su sé stesso e sul tempo dal quale riflette, come uno sguardo che cerchi di cogliere sé stesso, un occhio che cerchi di vedersi. È per questo che, aggiungeva Hegel, la filosofia arriva sempre per ultima, ossia conclude il processo storico, realizzandolo. Ed è per questo, inoltre, che ogni epoca, ogni tempo storico, porta con sé i segni che lo definiscono come tale, e che quindi è per questo, esso stesso, “una” filosofia. Cosa sono stati gli anni Novanta in filosofia? C’è una filosofia che ne caratterizza il profilo e gli esiti? Guardando prima e dopo il decennio che precede il nostro secolo, riusciamo a tracciare i confini, ben precisi, di una stagione della filosofia – dalla metà degli anni Ottanta sino alla fine dei Novanta – dominata da una parola: “linguaggio”.
Se gettiamo uno sguardo sul presente, ciò che notiamo è la pretesa, da più parti reclamata, di ciò che si potrebbe definire un “ritorno al reale”. La filosofia deve occuparsi di definire “ciò che c’è”, ossia deve trasformarsi in ontologia – stante il fatto che, lì fuori, qualcosa, di fatto, c’è. E allora ecco che prendono piede, ovunque, i cosiddetti neo-realismi o anche i realismi speculativi, nei quali appunto la pretesa consiste nel mostrare che qualcosa di duro, di resistente, di reale, esiste nel mondo. D’altro canto, la stagione che ha fatto seguito al secondo conflitto mondiale ha trovato nella fenomenologia – una filosofia della coscienza e dell’apparire del mondo alla coscienza – e nello strutturalismo – una filosofia delle forme sulla quali la realtà si costruisce – i suoi paradigmi dominanti. Il linguaggio, in un certo senso, sta in mezzo fra queste due costellazioni intellettuali. Dissoltesi le pretese strutturalistiche di ritrovare invarianti che dettino le leggi del reale, ciò che rimane sulla scena della contemporaneità è il polo da cui l’espressione di tali varianti proviene, ossia, appunto, il linguaggio.
Ricordiamo che nel 1960 era uscita l’opera magistrale di Hans Georg Gadamer, Verità e metodo che trasformava la riflessione del Martin Heidegger di Essere e tempo in una proposta ontologica basata sull’equazione, in estrema sintesi, per cui l’essere è uguale al linguaggio. Tale contributo, di estrema rilevanza per la filosofia contemporanea, si meticciò con e trovò supporto in tendenze provenienti soprattutto dal mondo anglosassone, già direzionato verso “l’analitica”, ossia l’idea che la filosofia debba risolversi nell’analisi logico-formale degli enunciati che la compongono. Ludwig Wittgenstein aveva costruito la sua proposta filosofica sull’idea che ai limiti di un linguaggio devono corrispondere i limiti di un mondo, ovvero le differenze culturali, che sono anche differenze rispetto a come il mondo si articola entro un’esperienza spazio-tempo…