Kübra Gümüşay è una giornalista e attivista di origine turca, cresciuta in Germania e arrivata in Inghilterra per degli studi. Cresciuta destreggiandosi tra un mosaico di lingue e culture diverse, l’autrice, nella recente pubblicazione per Fandango Lingua e essere, sottolinea come ogni idioma acquisisca un significato diverso: il turco diventa la lingua dell’amore e della malinconia, il tedesco quella dell’intelletto e della nostalgia e poi c’è l’inglese: la lingua della libertà.
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Un multilinguismo che travolge, a volte forse confonde, senza dubbio dà ragion d’essere. Un valzer veloce che fa girare tutta la stanza, le parole che sfuggono, altre che non esistono, e allora come si fa ad esprimere una certa cosa, se non c’è combinazione di morfemi che possano renderla viva? Ci si appella all’altra lingua – a una delle altre, in questo caso – con la consapevolezza di aver bisogno di tutte le proprie lingue per essere.
Bilinguismi di serie A e di bilinguismi di serie B
Il bilinguismo è una grande ricchezza, lo dice la scienza. Eppure, ad oggi ci sono ancora bilinguismi di serie A e altri di serie B. Da una parte le lingue maggioritarie, che devi assolutamente mettere nel curriculum se le sai: sono o non sono il tuo valore aggiunto, il motivo che dovrebbe spingere un datore di lavoro ad assumerti?
E poi ci sono le altre. La domanda che l’autrice si pone è: se un bambino domina come seconda o terza lingua il rumeno, polacco, turco o curdo, vale comunque come prova delle sue eccezionali capacità? La risposta ce la dà la società, la scuola, nella quale ancora oggi si dice ai genitori di alunni stranieri di non parlare la lingua d’origine tra le mura domestiche: quasi come se di certi bilinguismi ci si dovrebbe vergognare.
Dividere il mondo in scatole
Il mondo è diviso in categorie, più per comodità che per altro. Sapere dove mettere ogni singolo frammento caduto su questa terra è decisamente più rassicurante che mischiare idiomi, culture, personalità. Così facendo, però, tutto si riduce ad etichette: la ragazza con il velo, la donna di colore. A lungo andare si arriva ad una sorta di depersonalizzazione: non si è più esseri umani con le proprie specificità ma rappresentanti di un’intera categoria. E allora una donna con il velo diventa un continente intero, assumendosi la responsabilità e il peso del proprio ruolo: deve comportarsi bene, essere eccezionale, se non vuole che a rimetterci siano tutte le altre. L’autrice sa quale sia la verità: «il mondo non ha bisogno di nessuna categoria. Sono gli esseri umani che ne hanno bisogno». La fede nell’assolutezza trasforma queste rigide etichette in gabbie, chiamate stereotipi. Delle corazze che però proteggono solo chi le utilizza, l’ignoranza degli estranei, e non chi le indossa. Pesano, gravano su coloro che li portano e li mettono in ginocchio in momenti umani di debolezza.
«Lingua e essere»: di linguaggio e fragilità
Kübra Gümüşay in Lingua e essere (acquista) scrive di come anche la fragilità sia estremamente difficile da portare in tempi come questi.
Viviamo in tempi strani. Come essere umano che soffre non devi mostrare troppo chiaramente il tuo dolore. Devi piuttosto ingoiarlo, nasconderlo, in modo che il prossimo possa sopportarti, in modo che possa vedere in te un essere umano
Soffrire è un lusso, che non possiamo permetterci. Meglio nasconderci dietro ad un “va tutto bene” anche quando non va bene per niente. D’altronde, avremmo forse le parole per spiegare quello che proviamo? Abbiamo bisogno di rivoluzionare il nostro linguaggio, di parlare in un modo nuovo che includa tutti, che sia più giusto. Non è facile, spaventa, come tutti i cambiamenti. Abbiamo paura del diverso che ci cambia e, più di tutto, abbiamo paura di perderci. Dare un nome ai problemi comporta assumersi la responsabilità di trovare una soluzione: l’autrice ci dice chiaramente che è ora di farlo, è ora di riconoscere che questo mondo per come è oggi non è giusto – per quanto possa essere accogliente per alcuni.
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