Era il 1989 quando Giorgio Albertazzi vestì per la prima volta i panni dell’imperatore Adriano. Nella villa suburbana di Tivoli che ispirò Marguerite Yourcenar, il maestro del teatro italiano portava, nel suo palcoscenico naturale, l’immaginaria autobiografia dell’uomo che fu imperatore di Roma dal 117 al 138 d.C. Da allora, Memorie di Adriano è diventato uno spettacolo di culto, che da ventisei anni mette in scena uno straordinario Albertazzi diretto da Maurizio Scaparro, artista prolifico e versatile. Con oltre settecento repliche in Italia e all’estero, la rappresentazione è tornata a Roma gli scorsi 6 e 7 agosto nell’ambito del progetto Aspettando la Luna del Teatro Romano di Ostia Antica.
Nella dimensione dell’ impalpabile consistenza dei sogni, un Adriano immerso in riflessioni e malinconici ricordi si volge al passato per ripercorrere la propria esistenza, resa dalla Yourcenar simbolo di tolleranza e pace, esempio di intelligenza politica e istituzionale. Dopo anni di rappresentazioni Giorgio Albertazzi impersona l’imperatore perfettamente e con straordinaria semplicità ne estrae complessità e carisma, fascino e contraddizioni. Grazie alla sapiente scelta di Scaparro di adeguare ai tempi lo spettacolo senza tradire la struttura del romanzo, vediamo materializzarsi sul palco i ricordi dell’anziano Adriano che, con un senso di meditazione esistenziale, offre allo spettatore uno spettacolo tra il pubblico e il privato, in cui sono le meditazione su sé e sugli eventi ad arrivare intatte fino agli anni di oggi.
Il filo rosso tracciato dalla Yourcenar, che insinua nella vita dell’imperatore amori, ambizioni, vittorie e deliri, viene qui ripreso e seguito da Scaparro il quale, oggi come la prima volta, cuce addosso ad Albertazzi un personaggio emblematico, vero archetipo dell’esperienza umana. All’alba dei suoi novantatrè anni, l’attore calca il palcoscenico senza esitazioni, e con la consueta umiltà sommessa dà voce alle meditazioni di un uomo anziano che accetta la morte come ineluttabile destino. Con distacco guarda al passato, a quella gloriosa profezia che dice «Tu seras Emperador!» e che ora appare lontana, come un nostalgico simbolo dei tempi che furono.
Albertazzi si muove con incredibile leggerezza in una storia che mantiene il suo originale parametro narrativo, con un monologo che ripercorre gli inizi difficili, l’appoggio di una donna importante, la giovinezza e la proclamazione a imperatore, passando per i molteplici amori e le azioni calibrate. Accettando lo scorrere del tempo, l’imperatore insegna ad abbandonare l’affanno, a guardare in se stessi e alla propria vita con indulgenza e comprensione. Ma in un’epoca attraversata da odi insanabili, è ancor più profondo il messaggio che viene dal passato di quest’uomo simbolo di tolleranza, espressione di una cultura aperta e portatore di valori vivi e fecondi: «Non tutti i nostri libri periranno; altre cupole sorgeranno dalle nostre cupole e se i Barbari s’impadroniranno mai dell’Impero del mondo, saranno costretti ad adottare molti nostri metodi. E finiranno per rassomigliarci».
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