Fëdor Dostoevskij. La lettera:
Oggi, 22 dicembre, siamo stati portati in piazza Semenov. Lì ci hanno letto la sentenza di condanna a morte, ci hanno detto di baciare la Croce, hanno spezzato le spade sopra le nostre teste e ci hanno fatto indossare i nostri ultimi abiti (delle camicie bianche). Poi tre di noi sono stati legati al palo per essere giustiziati. Io ero il sesto. Ne chiamavano tre alla volta; io mi trovavo quindi nel secondo gruppo e non mi restava più di un minuto di vita.
Comincia così una lettera datata 22 dicembre 1849. L’ha scritta Fëdor Dostoevskij al fratello Michail. Il romanziere russo si è svegliato quel giorno sapendo che presto sarebbe stato fucilato. Otto mesi prima lo avevano arrestato insieme ad altri membri del circolo Petrasevkij, una società segreta dove alcuni intellettuali si riunivano per discutere della letteratura messa al bando dall’imperatore Nicola I. Dunque arriva la condanna: morte. E poi arriva il giorno. Ma quel giorno, Dostoevskij e i suoi compagni sono abbastanza fortunati da poterlo raccontare.
La rinascita alla vita di Dostoevskij
Ho ripensato a te, fratello, e a tutti i tuoi; nell’ultimo istante solo tu occupavi i miei pensieri, e solo allora ho capito quanto ti voglio bene, fratello mio carissimo! […] Alla fine hanno chiamato la ritirata, quelli che erano legati al palo sono stati riportati indietro e ci è stato annunciato che Sua Maestà Imperiale ci concedeva di vivere.
La revoca delle esecuzioni viene riferita ai prigionieri all’ultimo momento. È probabile che la decisione fosse stata già presa in anticipo. Inimmaginabile lo stato mentale dei condannati. Dovevano essere ormai rassegnati alla morte, pronti. E invece no: via dal patibolo e alcuni sono persino liberati seduta stante. Dostoevskij non è così fortunato. La nuova condanna prevede prigionia e lavori forzati in Siberia. È interessante come dalle parole dello scrittore trapeli una punta di entusiasmo. Deve essere un entusiasmo particolare, generato dal trauma della morte scampata e dall’ansia di voler rasserenare il fratello. Dostoevskij è più preoccupato per Michail che per il suo futuro nelle gelide lande siberiane.
Ho chiesto di poterti vedere, ma mi è stato risposto che è impossibile; posso solo scriverti questa lettera, a cui ti prego di darmi risposta il prima possibile. Ho paura che tu abbia saputo in qualche modo della nostra condanna a morte. […] forse la notizia è arrivata anche a te, e hai sofferto per me. Adesso puoi stare tranquillo. Fratello! Non mi sono abbattuto né perso d’animo. La vita è vita dappertutto. La vita è dentro di noi, non fuori di noi. Accanto a me ci saranno delle persone, ed essere un uomo tra gli uomini e restarlo per sempre, e per nessuna sventura abbattersi o perdersi d’animo — è questa la vita, lo scopo della vita. Ora l’ho capito.
Addio alla scrittura
Un’epifania. La rivelazione non riguarda solo la sua vita personale, ma anche quella artistica. La “testa dello scrittore” gli è stata tagliata. Quella testa che viveva nell’arte, piena di immagini e idee, non c’è più. Ora ce n’è un’altra, quella di un uomo rinato e privato della sua scrittura. Una testa fatta di carne e di sangue.
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Nient’altro. L’idea di non poter più scrivere sembra quasi stuzzicare lo scrittore. Prova a convincersi che è meglio così. Si consola.
Quella testa che creava, che viveva della vita superiore dell’arte, che aveva compreso e si era abituata alle superiori esigenze dello spirito, quella testa mi è stata tagliata via dalle spalle. Restano il ricordo e le immagini create ma non ancora incarnate da me. Mi strazieranno, lo so! Ma mi resta il mio cuore e la stessa carne e il sangue che sanno anche amare, e soffrire, e desiderare e ricordare — e questo, dopotutto, è vita. On voit le soleil! Ora addio, fratello! Non ti affliggere per me!
Eppure Dostoevskij non ci pensa proprio a concludere qui la sua lettera. Vuole scrivere, e scrivere ancora un po’. Nonostante abbia appena affermato di aver abbandonato qualsiasi pensiero rivolto all’arte, subito incalza il fratello: «Ma occupiamoci delle questioni materiali: mi hanno tolto i miei libri, diverse pagine del mio manoscritto, l’abbozzo del dramma e del romanzo».
Le opere in pericolo
La preoccupazione dello scrittore, dopotutto, è solo che quegli oggetti non vadano perduti. Eppure non passano due capoversi che ritorna sulla questione della scrittura. Dopo aver tentato di consolarsi, di dirsi che la vita, la vera vita, non riguarda le superiori esigenze dello spirito, lo scrittore cede allo sfogo. Ha paura, ma non per sé. Teme che quattro anni di lavori forzati in Siberia possano spegnere la sua fiamma. Teme per le sue creazioni, che i suoi personaggi muoiano durante la prigionia. Non può abbandonare la scrittura. Non vuole.
Possibile che io non prenda mai più una penna in mano? Credo che dopo quattro anni sia possibile. Ti manderò tutto quello che riuscirò a scrivere, se ce la farò, mio Dio! Quante immagini vissute da me e da me ricreate sono destinate a perire e a spegnersi nella mia mente, o a versarsi come veleno nel mio sangue! Già, se non mi sarà concesso scrivere, perirò. Sarebbe meglio venir condannato a quindici anni di carcere, ma con una penna in mano!
Viene scarcerato cinque anni dopo, ma costretto a servire nell’esercito come soldato semplice per altri cinque anni. Solo nel 1959 gli è permesso di tornare nella Russia europea. Dieci anni prima scriveva: «La vita è un dono, la vita è felicità, ogni istante potrebbe essere un secolo di felicità. Si jeunesse savait! (se la gioventù sapesse!)» E dieci anni dopo cosa ne è di Dostoevskij? Nel ’49 scriveva: «Fratello! Ti prometto che non perderò la speranza e che manterrò puro lo spirito e il cuore. Rinascerò in qualcosa di migliore». Ed è riuscito poi a mantenere salda la determinazione promessa al fratello Michail? Ha salvato la fiamma della sua passione, la scrittura, le immagini, protetto i suoi personaggi?
- Memorie dalla casa dei morti, 1861;
- Umiliati e offesi, 1861;
- Memorie dal sottosuolo, 1864;
- Il giocatore, 1866;
- Delitto e castigo, 1866;
- L’idiota, 1869;
- I demoni, 1871;
- I fratelli Karamazov, 1878.
Sì.
Alberto Pisano
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