Perché estetica espansa?
Il termine designa un’attitudine che appare propria di Gabriele D’Annunzio e che prefigura la situazione dell’arte e della società di oggi. D’Annunzio è stato l’artista capace di fare, non soltanto della sua vita ma di ogni cosa che lo riguardava (la casa, l’attività politica e militare, le relazioni sentimentali, eccetera), un’opera d’arte. Egli ha applicato l’estetica a ogni ambito della vita. Così facendo, D’Annunzio ha, per così dire, fatto “esplodere” l’estetica stessa. Egli prefigura il nostro tempo, in cui l’estetica sembra permeare ogni cosa e ogni cosa ha assunto dei codici “artistici”. Da qui deriva l’attuale difficoltà nel separare l’“arte” da tutte le altre “cose”.
Dannunzianamente parlando, si potrebbe affermare che, oggi, sembra impossibile «separare l’arte dalla vita» e trovare una specificità dell’ambito artistico che lo distingua nettamente da tutti gli altri. Si pensi alla pubblicità, ad esempi, che permea di estetica ogni cosa servendosi dell’”arte”, intesa, in senso lato, come codice, per avvincere” gli “spettatori” e trasformarli in “consumatori” accaniti. D’Annunzio, non a caso, fu uno dei primissimi pubblicitari. Il Vate, prima di Salvador Dalì e ancor prima di Andy Warhol, piega le ragioni dell’arte a quelle della comunicazione. Il Poeta italiano, così come, a loro volta, il genio catalano del Surrealismo e l’inventore di quell’universo visivo definito “Pop”, si è costituito in icona, in divo, in mito.
L’arte, la vita e l’immagine stessa di D’Annunzio sembrano essere applicate alla pubblicità e alla comunicazione tanto quanto quelle di un Dalì o di un Warhol. Con la differenza che, all’epoca di D’Annunzio, il campo stesso della pubblicità era ai primordi. Per di più, era assolutamente inconcepibile e “scandaloso” che un rappresentante della cultura “alta” (la letteratura, la poesia) aderisse così profondamente ai nuovi mezzi di comunicazione di massa, dalla réclame al cinema. D’Annunzio espresse la sua vocazione multimediale, nel segno dell’espansione dell’estetica, dando seguito a una vera e propria attività pubblicitaria. Egli fu un attivo testimonial di se stesso e fu certamente il primo, pagatissimo, market-promoting del nostro paese. Battezzò prodotti e creò slogan per liquori, dolci, panettoni, biscotti, grandi magazzini, sciroppi, inchiostri, e tanto altro. L’adesione totale di D’Annunzio al modernoe produsse una penetrazione dell’estetica in ogni ambito della vita contemporanea, dal più quotidiano al più sublime.
Si approdò, così, a una sorta di grado zero, di annullamento delle gerarchie estetico-culturali che sembravano, fino allora, aver delimitato i diversi aspetti e i diversi livelli dell’esistenza umana e della produzione artistica stessa. D’Annunzio visse continuamente in una dimensione teatrale, che da lui emanava e a lui ritornava, elevandolo a mito. Questo è il sistema impiegato ancora oggi dalle star o dalle icone pop. I vestiti elegantissimi o eccentrici (e sempre eccessivi), la casa come opera-museo, il culto per certi oggetti-simbolo (come l’auto, i cavalli) contribuiscono a creare la scenografia e l’universo estetico-simbolico in cui D’Annunzio vive e si muove. La tensione dannunziana all’espansione dell’universo estetico si manifesta, con forza, nella sua attitudine a istituire una compenetrazione profonda e una relazione osmotica tra personaggio e ambiente, tra figura e sfondo. Ciò è un tipico tratto della letteratura del Vate e questa caratteristica si riversa anche in quel cinema che all’immaginario del Poeta fa riferimento. D’Annunzio considera l’ambiente in cui un soggetto vive come inestricabilmente legato ad esso e, nel caso di un artista, come un’espressione privilegiata della propria personalità. Si pensi al Vittoriale degli Italiani, appositamente creato per la musealizzazione della casa e del personaggio che la abitava. Egli viveva come un principe o come un divo, circondato da servitori e opere d’arte. A sua disposizione, al Vittoriale, aveva immensi giardini, deliziose fontane e ancora cavalli, cani di razza, automobili e aeroplani. La più famosa tra le dimore dannunziane ha assunto una funzione di vera e propria opera d’arte e di monumento di autoespressione dell’inquilino-autore. In essa si esprime, dunque, una caratteristica costante del dannunzianesimo che i “registi dannunziani”, talvolta anche inconsapevolmente, hanno fatto emergere nelle loro messinscene: la fusione tra ambiente e personaggio, dimora e proprietario e, ancora, tra personaggio e opera, fra vita vissuta e vita immaginata, tra mondo interiore ed esteriore.
D’Annunzio riuscì a promuovere il suo personaggio non solo con la creazione di fastose dimore in direzione di una monumentalizzazione di se stesso, ma anche producendo scoop a raffica e anticipando le tecniche di guerrilla marketing – basti pensare al lancio dei bigliettini che coronava il “volo di Vienna” – adottate oggi da alcune pratiche dell’arte contemporanea. Non solo le dimore, dunque, ma anche le azioni politico-militari del Vate si fanno arte. A trazione estetica fu, di certo, la cosiddetta Beffa di Buccari, una vera e propria“performance di carattere propagandistico-militare. L’impresa sembra rappresentare, ancora una volta, un esempio di quella estetica espansa di cui D’Annunzio fu portatore, come artista e come uomo. Basti pensare che, in questo caso, l’opera-operazione raggiunse dei risultati, per così dire, multimediali. A memoria dell’impresa venne pubblicato un libricino, edito nel 1918 da Treves, dal titolo La Beffa di Buccari contenente La canzone del Quarnaro, Il catalogo dei Trenta di Buccari, Il cartello Manoscritto, e Due Carte Marine. Il Vate prefigura così la pratica modernissima (decisamente più commerciale che artistica) di rendere qualsiasi opera un oggetto multimediale. Un’unica creazione veniva declinata in molteplici forme, dalla pura azione al libro, allo spettacolo, alla trasposizione filmica, al libretto d’opera.
Ricordando l’altra famosissima azione politico-guerresca di D’Annunzio, viene dunque da chiedersi: come intendere l’impresa di Fiume? Apoteosi militare dell’irredentismo d’anteguerra? Laboratorio politico ideologico del Fascismo? Esperimento anarco-socialista? Forse ci si è spesso dimenticati che a capeggiare l’azione fu un Poeta, un creativo, un uomo che aveva piegato ogni cosa incontrata fino ad allora nella vita alle sue esigenze d’artista, che si trattasse della cultura, dell’amore, della guerra, della politica o dei nuovi mezzi di comunicazione. Perché, allora, non interpretare l’impresa fiumana come opera d’arte, come una sorta di gigantesca e complessa performance, di estrema ritualizzazione estetica tanto della guerra quanto della politica, finalizzata a una rielaborazione dei connotati di queste stesse? La componente estetica è ben presente nell’impresa fiumana ed è la forma mentis stessa del Poeta a spingere verso questa interpretazione. Fiume (poi Reggenza del Carnaro) appare un vero e proprio esperimento di estetica espansa.
L’11 settembre del 1919, il Poeta, seppur febbricitante, raggiunge a Ronchi circa 2600 uomini, ribattezzati “legionari”, presentandosi in automobile. D’Annunzio lega così il mito della macchina e del moderno, che si ritrova in Forse che si forse che no (e che sarà fatto proprio successivamente dai Futuristi), all’impresa eroica; impresa che finirà per risolversi nell’uso di altre macchine, quelle da guerra. Il 12 Settembre prende possesso della città. D’Annunzio, assieme al suo gabinetto di governo, crea addirittura uno Stato, la Reggenza Italiana del Carnaro, proclamata ufficialmente il 12 agosto 1920. In questo contesto fu promulgata la Carta del Carnaro, la costituzione fiumana redatta da Alceste De Ambris ma che risente evidentemente dell’influenza di D’Annunzio, soprattutto nelle battute finali. Fu inventato un nuovo vessillo per il nascente Stato, che divenne il rifugio di molti perseguitati politici, anarchici e rivoluzionari.
Fiume si presentava come una surreale capitale dell’eversione internazionale e della fantasia al potere. Nel novembre del 1920 D’Annunzio e i suoi decisero di rifiutare il Trattato di Rapallo. L’esercito italiano fu allora inviato contro i “legionari” fiumani, in quello che il Poeta definì «Natale di sangue». Qua e là anche gli storici si sono accorti della valenza estetica dell’esperimento fiumano. Si pensi a quanto scrive Giuseppe Parlato: «D’Annunzio per le sue caratteristiche di esteta e di narciso fu attratto dall’aspetto creativo dell’avventura rivoluzionaria di Fiume, che gli permetteva di esternare le sue caratteristiche» o, ancora, Salerno, in un passo del suo D’Annunzio e i Savoia afferma: «D’Annunzio è sempre stato più poeta che politico». Si veda poi la Carta del Carnaro: sembra di trovarsi dinanzi a un documento “sessantottino”. Visioni della società tanto libertarie si potevano trovare, forse, soltanto in manifesti anarchici o delle prime avanguardie artistiche. All’articolo 2 si diceva che «la Repubblica del Carnaro[…] conferma perciò la sovranità collettiva di tutti i cittadini senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di classe e di religione». La Carta del Carnaro fu pensata come un’opera letteraria. A riprova di ciò il testo venne pubblicato nel volume Prose di ricerca, di lotta, di comando, di conquista, di tormento che raccoglieva diversi scritti dannunziani.
Per tornare all’interpretazione di Fiume come città costituitasi in “opera d’arte totale” è utile riportare quanto scritto da Luciano Curreri:
«Per gli storici, i critici e anche, e forse soprattutto, per gli scrittori, per gli artisti, il logoramento del tempo che, fra la fine del 1919 e la fine del 1920 si impossessa di Fiume e di D’Annunzio, produce un luogo affascinante come pochi, quasi un cronotipo idillico alla Bachtin […] Dico quasi proprio perché Fiume parte semmai come cronotipo in crescita, ovvero dotato in potenza di una reale crescita spazio-temporale, a Occidente come a Oriente, e in tal senso aspira anche a fondere, in modo non così celato, implicito, la ricostruzione del mondo e dell’uomo reale con la distruzione di ogni legame consueto e la creazione di vicinati inattesi, di legami inattesi […] si assiste a un’attenuazione di tutti i confini del tempo, Fiume sembra diventare l’unità di luogo che avvicina e fonde la culla e la tomba […] l’infanzia e la vecchiaia […] Fiume diventa anche un buon posto per morire, un buon trampolino per un tuffo nell’eternità o nel futuro, dove fondersi con le generazioni a venire e, in un certo senso, dove poter resistere, ritornare».
Nell’illuminata e illuminante lettura dell’esperienza fiumana, svolta dalla storica dell’arte Claudia Salaris nel suo saggio Alla festa della rivoluzione, la studiosa identifica diversi punti in comune tra fiumanesimo, avanguardismo e addirittura controcultura giovanile degli anni ‘60. Tra i legami individuati, scrive l’autrice, «la determinazione a osare l’inosabile», che anticipa «la surrealistica immaginazione al potere che vivificherà il Maggio parigino; la forte carica di soggettività di massa; l’importanza data alla festa e al gioco come strumenti liberatori; la libertà sessuale l’esaltazione del corpo; la centralità della passione[…] la circolazione delle droghe[…] l’antiimperialismo; le tematiche dei diritti civili[…] la priorità data alla vita di gruppo e il rifiuto della famiglia borghese».
Ne viene fuori l’immagine di D’Annunzio e dei suoi più come artisti d’avanguardia che come prototipi di uomini d’ordine fascisti. La valenza prettamente creativa dell’impresa fiumana è una riprova di come l’azione politica di D’Annunzio (così come ogni altro aspetto della sua esistenza) andrebbe considerata unicamente sotto il profilo artistico-performativo (in anticipo rispetto a tante pratiche successive, in primis il gesto futurista e dadaista).
Ciò che è stato detto sinora rende conto di quanto sia presente, nell’“universo D’Annunzio”, un’incessante commistione tra ambiti differenti; dalla letteratura alla pubblicità, dal cinema alla propaganda. I dati biografici e le azioni reali infarciscono l’arte e quest’ultima innalza la vita ad uno stato superiore, in cui mito, realtà, tradizione, simbolo, storia si intrecciano fino a divenire inestricabili.
In ogni atto del Vate si intravede tanto un esperimento di mitizzazione artistico-simbolica del Sé quanto una lucida e modernissima operazione di marketing. Si pensi all’amore con Eleonora Duse. Di certo D’Annunzio controllava e, in un certo senso, “allestiva”, proprio come uno spettacolo, il coté mondano e scandalistico di quella relazione. Fu anche per questa continua esposizione celebrativa (oltre che per lo sfiorire della giovinezza della diva) che il rapporto tra i due si interruppe. Forse, la Duse, da un certo momento in poi, non costituì più un valido strumento per la spettacolarizzazione del “vivere inimitabile” e, dunque, la donna venne sacrificata da D’Annunzio in nome dell’ideale della Vita che deve farsi Arte, obiettivo da perseguire ad ogni costo.
L’uomo che ha incarnato e prefigurato i più attuali e spregiudicati sistemi di comunicazione e che ha utilizzato perfino l’amore per fare della sua vita un’opera d’arte, avrebbe mai potuto ignorare un mezzo nuovo e potente come il cinema? Il cinema per D’Annunzio, lungi dal costituire una semplice risorsa economica, si presenta, dunque, come un interesse artistico e intellettuale sincero.
L’incontro del Vate con i nuovi mezzi di comunicazione di massa si radica in quella tensione spasmodica a rendere tutto “arte”, che appare oggi il tratto più sconvolgente del dannunzianesimo e che si è voluto qui racchiudere nel concetto di “estetica espansa”.
Pubblicità, politica, teatro, cinema, letteratura, amori, imprese belliche, sono tante tappe di un percorso, quello dannunziano, che vede il Poeta farsi banditore di un’estetica totalizzante, capace di attraversare indistintamente tutti i campi e di vivere nel sogno costante di trasformare, alla maniera del re Mida, tutte le cose in oro, tutte le cose in arte.
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