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L’estate nella letteratura

Se l'estate non può non finire nel mondo reale, può non farlo in quello della letteratura. Ecco qualche lettura per farci restare in questa calda stagione.

3 minuti di lettura

Che dopo Ferragosto l’estate volga al termine è un dato di fatto. Se fate parte di coloro che amano la bella stagione potete prolungarne le sensazioni immergendovi nella lettura di romanzi ambientati nei periodi più caldi dell’anno e perdervi nell’illusione che l’estate possa durare per sempre, come se non fosse soggetta alle leggi del tempo ma solamente a quelle della vostra immaginazione.

Tra i classici della letteratura più adatti allo scopo di mantenere vive le sensazioni estive potete trovare Lolita di Vladimir Nabokov, Le avventure di Huckleberry Finn di Mark Twain, Il grande Gatsby e Tenera è la notte di Francis Scott Fitzgerald, Il buio oltre la siepe di Harper Lee e Luce d’agosto di William Faulkner.

Se invece preferite la letteratura italiana potete rivolgervi agli scrittori siciliani – che di calura se ne intendono abbastanza – e addentrarvi nell’ «estate lunga e tetra quanto l’inverno russo e contro la quale si lotta con minor successo» de Il Gattopardo; incamminarvi in un paese che sembra «abbandonato, senza un’ombra, con tutte le finestre spalancate nell’afa, simili a tanti buchi neri» sfogliando Mastro Don Gesualdo di Giovanni Verga; o passare il tempo in un giardino pubblico che Luigi Pirandello nel Ventaglino descrive così «meschino e polveroso, in quel torrido pomeriggio d’agosto era quasi deserto, in mezzo alla vasta piazza cinta tutt’intorno da alte case giallicce, assopite nell’afa».

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Infine se – come la sottoscritta – preferite la canicola letteraria a quella reale, allora vi propongo un elenco di letture che più di altre mi hanno permesso di provare la sensazione estraniante dell’ora panica:

Rimini, Pier Vittorio Tondelli (Bompiani, 1985):

Il caldo incombeva fra le vetture lucide di sole, le cartacce e i binari ferruginosi. Ma non fu precisamente questa l’immagine più netta che Robby percepì muovendo i primi incerti passi sul suolo di Rimini. Faceva caldo, probabilmente attorno ai trentacinque-trentasette all’ombra. E questo caldo appiccicoso e denso, un caldo sporco, praticamente nient’altro che la traspirazione evaporata nell’atmosfera di quelle decine e decine di migliaia di bagnanti che in quello stesso momento prendevano il sole sulla striscia di sabbia della riviera, ecco, un caldo umano, non un caldo puro, e per questo già istintivamente insopportabile […].

La sottile linea scura, Joe R. Lansdale (Einaudi, 2004 – traduzione di Luca Conti):

Visto che l’aria condizionata era ancora poco frequente, anche nei negozi, il caldo era veramente appiccicoso: ci si sentiva cosparsi come di uno strato di melassa riscaldata. D’estate, quegli abiti da uomo gravavano sulle loro vittime come dei cilici, simili a veri e propri strumenti di tortura. Quelle cravatte sottili pendevano esanimi su camicie chiazzate di sudore, mentre l’imbottitura delle spalline delle giacche si spostava per un nonnulla e andava a creare gobbe qua e là. Il tessuto assorbiva il sudore al pari di una spugna zuppa d’acqua; le tese dei cappelli pencolavano verso il basso.

Io non ho paura, Niccolò Ammaniti (Einaudi, 2001):

Ogni cosa era coperta di grano. Le colline, basse, si susseguivano come onde di un oceano dorato. Fino in fondo all’orizzonte grano, cielo, grilli, sole e caldo. Non avevo idea di quanto faceva caldo, uno a nove anni, di gradi centigradi se ne intende poco, ma sapevo che non era normale. Quella maledetta estate del 1978 è rimasta famosa come una delle più calde del secolo. Il calore entrava nelle pietre, sbriciolava la terra, bruciava le piante e uccideva le bestie, infuocava le case. Quando prendevi i pomodori nell’orto, erano senza succo e le zucchine piccole e dure. Il sole ti levava il respiro, la forza, la voglia di giocare, tutto. E la notte si schiattava uguale.

La morte a Venezia, Thomas Mann (Feltrinelli, 1965 – traduzione di Enrico Filippini):

Sui vicoli stagnava una calura afosa e ripugnante; l’aria era così spessa che gli odori provenienti da abitazioni, botteghe, cucine, vapori d’olio, nuvole di profumo e molti altri, restavano sospesi senza dissolversi. Il fumo delle sigarette fluttuava immobile e si disperdeva solo con estrema lentezza. La folla che si accalcava nello spazio angusto infastidiva il viaggiatore invece di divertirlo. Più camminava, e più sentiva il tormento dell’orribile stato in cui l’aria di mare unita allo scirocco lo precipitavano, uno stato di prostrazione e insieme di eccitazione. Era inondato di un molesto sudore. Gli si annebbiava la vista, il petto era oppresso, un brivido di febbre lo scosse, il sangue gli pulsava alle tempie. Fuggì dalle Mercerie affollate, superando ponti, verso i quartieri dei poveri. Ma qui lo importunavano i mendicanti, il fetore dei canali gli mozzava il respiro. In una piazza tranquilla, uno di quei luoghi nel cuore di Venezia che sembrano abbandonati in un incantato oblio, si riposò su una vera di pozzo, s’asciugò la fronte e capì che doveva partire. Per la seconda volta e ormai in modo definitivo era dimostrato che la città, con quella situazione atmosferica, era molto dannosa alla sua salute. Ostinarsi a restare era irragionevole, la probabilità di un cambiamento del vento era molto incerta.

Mara Abbafati

Fonte: Cultora

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