– […] Sal, dobbiamo andare e non fermarci mai finché non arriviamo.
– Per andare dove, amico?
– Non lo so, ma dobbiamo andare.
Sulla strada, Jack Kerouac (1922–1969)
Giovedì 18 giugno in via Tortona 56 a Milano c’è fermento. La sala del Museo delle Culture è gremita e calda, c’è chi è riuscito a trovare posto e chi si siede per terra, con la stessa voglia di ascoltare, con la stessa empatia: sono alla presentazione di un grande libro. Il silenzio che la precede è giustamente denso di qualcosa. Conoscere il passato dei grandi artisti a volte può essere deludente, viste le troppe aspettative che gravitano sulle loro teste: questa volta tutto è al suo posto, tutto viene ripagato con il giusto tempo.
Con Iran 1970, pubblicato abilmente da Humboldt Books, si superano le pretese di viaggio di formazione e si riesce ad assaporare un Gabriele Basilico inedito, libero e avventuriero, un Gabriele Basilico senza nessuna etichetta da «fotografo d’architettura» e prima di tutto un uomo.
Come sottolinea Luca Doninelli, nell’introduzione al libro e alla presentazione, questo libro ci permette di godere di un «Basilico prima di Basilico» dove il reportage di viaggio, tra Jugoslavia, Turchia e Iran, lascia intravedere quei «segni della nascita di una vocazione». Sono proprio la compagna di vita e di viaggio, la fotografa Giovanna Calvenzi, con l’intervento di altri compagni di quel viaggio, gli scrittori Luca Doninelli e Marco Meneguzzo, a presentare questo romanzo alla scoperta di un percorso oltre l’avventura.
Dalla copertina, Iran 1970 rassomiglia più a un quadernetto ben curato, a un taccuino leggero di un colore – non a caso – blu Persia. Dal colore alle traduzioni, nessun elemento è lasciato alla casualità; i particolari curati nei minimi dettagli hanno permesso al libro di nascere già fortunato.
Sono fotografie semplici – spiega Giovanna Calvenzi – semplici come il viaggio stesso è stato, ma che ha lasciato in noi ricordi molto precisi, definiti. Gabriele stesso, che aveva scattato con la sua predisposizione innata alle forme geometriche, guardava queste fotografie con affetto, perché ricostruivano prima di tutto un ricordo indelebile e pulito.
Ma cosa ha spinto lei e Gabriele a partire per l’antica Persia? Cosa c’è dietro a quel viaggio?
Gabriele, Giovanna e un bar milanese. Prendere la decisione risulta facile proprio ammirando i paesaggi aridi della Cappadocia: sono i ritagli di National Geographic davanti a loro a spingerli ad andare oltre alla semplice immaginazione.
Titubanti tra la mitica Samarcanda e l’Afghanistan partono con un unico intento, quello di uscire dalla contemporaneità per dare corpo alle proprie passioni. Era l’inizio dell’inizio e niente aveva ancora una forma definita.
La loro idea prende forma dall’Italia, da una Fiat 124 del padre di Gabriele, qualche tanica di benzina, litri d’olio, sacchi a pelo e due macchina fotografiche di medio e grande formato. Le ultime spese alla Fiera di Senigallia e la partenza da Caorle. Macinano chilometri verso est in direzione Jugoslavia, dove trovano i loro compagni di viaggio partiti da Milano. È proprio il viaggio verso l’Iran ad aprire il libro: sfogliando le prime pagine si riesce subito ad apprezzare peculiarità che non appartenenti all’Iran, infatti sguardi, scritte e muri rimandano a un altro mondo, quello che scorrendo li accompagna verso est.
Il viaggio diventa scoperta, diventa ammalarsi e ripartire, rompere la macchina e trovare aiuto da bambini improvvisati meccanici, non essere ben visti e dover scappare in un’altra città. Il viaggio diventa avventura non scritta su una mappa precisa e insieme scoperta della geografia interiore che già ci appartiene, ma che sembra ancora più limpida camminando per il mondo.
«Più che Basilico io ci vedo Gabriele in queste foto, un Gabriele curioso e senza un preciso obbiettivo in testa» continua Giovanna Calvenzi. Anche se si tratta essenzialmente di fotografie di vacanza, queste hanno il potere di comunicarci che «le cose sono così». Aggiunge Luca Doninelli «quello che ho appreso da Gabriele è proprio questo, che non esistono fotografie fatte bene o fatte male, ma che c’è qualcosa che è fotografia e qualcos’altro che non lo è, che è l’esattezza dello sguardo a definire un fotografo che, anche senza macchina fotografica, sa dove dirigere lo sguardo». La stessa esattezza dello sguardo che vale per tutti gli artisti, poeti, attori, scrittori, giornalisti. Quel continuo apprendistato che crea nelle immagini di Basilico, una quiete drammaticità, un’inquietudine pacata e una continua tranquillità.
Sono tanti gli elementi presenti nelle fotografie di Iran 1970: c’è il viaggio, c’è la fotografia stessa, ci sono l’esotismo e il tempo. Così, conclude Marco Meneguzzo, «vediamo fotografie di persone, rarissime per come poi abbiamo conosciuto Basilico, che non sono però incentrate sulle persone, piuttosto sulle loro caratteristiche “tipiche”, come se ci fosse una genetica che rimane indelebile nel tempo». Come se il tempo si fosse fermato al 1970. La fotografia ha il potere di annullare questo tempo, cancellando quel mezzo secolo che ci separa dallo scatto ne dichiara la nullità. È un tempo unico, ma universale e per questo replicabile da parte di chiunque che abbia occhi per arrischiarsi e per riconoscersi. Per questo è un libro fortunato, perché è l’antidoto alla delusione del mondo. Libro nel quale il tempo prende forma tra le sfumature del bianco e del nero, alternandosi tra giochi di luce.
«Se ritorniamo oggi in Iran, dopo 40 anni, le facce non sono cambiate, sono ancora così, curiose e impolverate e la Persia è ancora lì, nascosta tra gli sguardi e il marmo delle rovine».
I compagni di viaggio si emozionano ancora parlando di quell’avventura, regalando particolari che arricchiscono ancora di più l’emozione di quel viaggio. Tutti sono d’accordo sul fatto che non sia mai stato, per Gabriele, un viaggio di formazione, ma che tutta la sua vita e le sue esperienze sono servite per forgiare la sua personalità, la sua professionalità e la sua poetica. Le immagini del viaggio però, stampate in ogni modo possibile al suo ritorno, sono rimaste in soffitta fino ad oggi. Tutto ciò che lo stava aspettando non era dietro l’angolo; infatti, bisogna aspettare il 1982, l’anno della sua svolta personale, con la pubblicazione di Ritratti di Fabbrica. Il suo lavoro di ricognizione e di lettura sulle fabbriche milanesi è anche l’inizio strepitoso di una grande carriera intrisa di successi, mostre, reportage, cataloghi e viaggi. Una carriera intensa, come la sua vita.
Iran 1970 è prima di tutto questo. Nato da una passione semplice, da una voglia di scoperta che diventa un progetto apparentemente senza trama, in grado invece di diventare «immagine che ferma il tempo». Un lavoro nascosto in soffitta, che non poteva rimanere lì ancora a lungo.
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