Lear. La storia, con regia di Giuseppe Dipasquale, apre la stagione 2016/2017 del Teatro Franco Parenti di Milano, portando in scena, nella traduzione di Masolino D’Amico, l’immensa tragedia shakespeariana del vecchio re Lear, interpretato da un sublime Mariano Rigillo.
Dare inizio al cartellone con una tragedia come Re Lear è un scelta coraggiosa per molti motivi: è un’opera conosciuta, quindi soggetta ad alte aspettative da parte sia della critica che del pubblico. È William Shakespeare, è un classico e perciò un testo drammaturgico che gode di tutte le connotazioni di tale status, quali esigenza di rispetto di fronte alla tradizione e quella sorta di venerazioni filologica che si ha di fronte a ciò che ha fatto la storia della cultura; allo stesso tempo, proprio perché classico, si sente spesso la necessità (non sempre giustificata e davvero “necessaria”) di renderne palese l’attualizzazione, con rivisitazioni, riletture e una sorta di “ri-arrangiamento” verso il contemporaneo. Un testo come questo può quindi comportare, alla luce di come ne viene interpretata la sua classicità, una vittoria oppure una grande sconfitta della sua messa in scena e quella di Dipasquale è una grande vittoria.
Grazie alla traduzione di D’Amico, il testo di Shakespeare si presenta sulla scena in tutta la sua maestosità poetica e la parola è pregna di quella tragica intensità che la penna del Bardo seppe conferirle e che l’abilità recitativa della compagnia è in grado di restituire grazie ad una recitazione mai affettata né eccessivamente ricercata. Questo è il primo pregio del lavoro del regista e della compagnia: mantenere la lingua di Shakespeare il più vicino possibile a quale essa fu, senza tentare di avvicinarla al parlato contemporaneo.
Dal punto di vista testuale e linguistico Re Lear rimane testo di letteratura teatrale qual fu ed è tuttora, con il suo linguaggio e le regole retoriche che vogliono la lingua del tragico elevata ed in versi. Questo non genera, però, distanza, in senso negativo. Una tragedia è esagerazione in ogni suo elemento: dai personaggi, alle azioni, alla lingua. Questo manto di “superiorità” è necessario perché essa sortisca il suo fine catartico e sublime. Ascoltare la lingua della tragedia shakespeariana è già di per sé una prima fase catartica: la gravità e la bellezza dei versi avvolgono lo spettatore, ne catturano l’attenzione tramite la musicalità e disvelano la verità di cui si fanno veicolo all’interno di similitudini, metafore, singole parole che emergono tra le pause o nei crescendo della voce.
La sceneggiatura e la scenografia sono l’altro punto vincente: i costumi richiamano l’epoca della narrazione, la scenografia è ridotta a pochi essenziali elementi allusivi e allegorici, in primis il muro che si sposta avanti e indietro, allargando o stringendo lo spazio dell’azione in conformità non tanto dell’ambiente che esso vuol rappresentare (interno-esterno), quanto dell’ambiente interiore dei personaggio in scena in quel momento, all’aumentare del vuoto affettivo e morale che li circonda e caratterizza. La drammaturgia originaria è rispettata quasi sempre, se non per alcuni guizzi del regista, che rendono però unica e originale questa rappresentazione.
Ciò che colpisce lo spettatore sin dall’inizio è la scelta di far interpretare le due figlie maggiori, Regan e Gonerill, da attori uomini, truccati ed abbigliati al femminile. L’unica figura prettamente femminile è quindi quella della figlia minore, Cordelia, uno dei due soli personaggi totalmente positivi (assieme al duca di Kent) della storia. Assieme a ciò si sceglie di non rappresentare Regan e Gonerill come donne sposate: esse sono donne di nome, ma in loro l’elemento femminile e maschile si sposano e mescolano in un’unica entità falsa e malvagia.
In questa scelta il regista pare voler scagionare l’essere di natura sinceramente e realmente femminile dal male, quasi come ne fosse incapace. Le trame, le congiure, il falso, sono qualità proprie di chi brama il potere per personale tornaconto: il sesso maschile. Questa, però, è una scelta che non convince completamente perché da un lato sveste la tragedia della sua complessità anche di genere: si sa che Shakespeare considera la donna immensamente pura così come immensamente maligna, basti pensare a Lady Macbeth e alle sue sublimi contraddizioni.
L’altro elemento di variazione si legge nel titolo. Re Lear diviene semplicemente Lear, spogliato sin da qui del suo statuto di re. D’altronde il dramma di apre con un re stanco e vecchio che rinuncia alla sua carica e quindi, di fatto, non è più re per tutto il tempo dello spettacolo. Lear è il grande protagonista tragico: egli non è né il bene né il male, ma entrambi, una sorta di ossimoro vivente. Egli è il motore della sua stessa rovina, come nelle grandi tragedie classiche: pecca di ùbris preferendo la menzogna adulatrice alla sincerità onesta e da solo aprirà così le porte al male.
Rigillo, al culmine della sua carriera, sorprende ancora per la sua immensità come attore ed interprete. Il suo Lear è tanto vecchio quanto forte, è folle ma di una lucida follia, che si presenta, pur nelle frasi spezzate e nei ritmi da giocosi indovinelli, come l’unico momento di verità.
Re Lear è di solito presentata come una tragedia di potere e ambizione che portano alla dissoluzione anche del più forte dei legami: quello di sangue. Eppure essa può essere letta anche come una tragedia generazionale: lo scontro tra padri e figli, tra vecchi e giovani. «Non si dovrebbe diventare vecchi prima di essere diventati saggi», afferma ad un certo punto il Matto (personificazione del delirio di Lear ed allo stesso tempo unico savio in scena). Lear è il rappresentate del padre che non accetta il fatto che la figlia, una volta adulta, amerà anche un altro uomo. Gloucester il genitore debole manovrato dal figlio. Gonerill e Regan sono figlie prive di rispetto nei confronti della figura del genitore anziano, tradizionalmente sacra e veneranda. Forse è proprio in questo, ancora più che nella lotta per il potere, che si cela l’attualità del classico in questa tragedia e che ancora spinge agli applausi finali.
Lear. La Storia
di William Shakespeare
traduzione Masolino d’Amico
adattamento, regia e scene Giuseppe Dipasquale
con Mariano Rigillo, Anna Teresa Rossini, Sebastiano Tringali, David Coco, Filippo Brazzaventre, Silvia Siravo, Giorgio Musumeci, Luigi Tabita, Ugo Bentivegna, Enzo Gambino, Roberto Pappalardo
opere in scena e costumi Angela Gallaro
musiche Germano Mazzocchetti
movimenti scenici Donatella Capraro
luci Franco Buzzanca
produzione Teatro Stabile di Napoli
dall’11 al 16 ottobre – Teatro Franco Parenti, Milano
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