1.Leggere rende felici?
Pare di sì.
Secondo uno studio condotto dall’Università di Roma 3 esiste una correlazione tra la lettura dei libri e la felicità. I lettori italiani sarebbero mediamente più felici dei non lettori e meglio attrezzati per affrontare le difficoltà del vivere. La ricerca verrà presentata il 24 ottobre 2015 durante Bookcity Milano 2015 presso la Sala Viscontea del Castello Sforzesco. Forse Marco Missiroli con il suo «più libri troverai in casa di una persona e maggiore sarà il suo grado di infelicità» non sarà tra i più stretti sostenitori di questa nuova scoperta scientifica. Staremo a vedere.
In attesa di conoscerne i risultati possiamo ancora crogiolarci per qualche ora nella convinzione che se i libri non portano alla felicità, quantomeno insegnano una forma di consapevolezza sul vivere quotidiano, aprendo spiragli di lettura spesso preclusi a chi non è adito a questo genere di frequentazioni.
Un autore, in particolare, è stato capace di raccontare l’indicibile sondando i retroscena dell’uomo con una precisione crudele, quasi chirurgica, tanta è stata l’esattezza del suo angolo di lettura. Purtroppo, ad oggi, giace dimenticato nei bassifondi dei grandi magazzini: i lettori sembrano essersi dimenticati di lui. Un libraio disse una volta che tra i classici della letteratura è forse il meno venduto. I suoi libri non vengono aggiornati sugli scaffali delle librerie e, tolti i titoli più noti, la maggior parte dei suoi testi sono esclusi dalle ristampe. Si sa, esistono le biblioteche e forse i veri lettori si annidano ormai lì, al riparo dalle vetrine allegre delle grandi librerie commerciali che sembrano sempre più orientare i loro consigli per gli acquisti con l’ausilio di fascette promettenti: «Questo libro ti renderà felice».
Samuel Beckett vinse il Premio Nobel per la Letteratura nel 1969 per «la sua scrittura che – nelle nuove forme per il romanzo ed il dramma – nell’abbandono dell’uomo moderno, acquista la sua altezza». Ad oggi non entra nelle classifiche, non fa parte delle statistiche, non influenza il pensiero delle masse. È un autore, verrebbe da dire, che non rende felici.
Ma l’Italia non è il coacervo di ogni male. La sua esclusione dal panorama collettivo sembra essere una malattia internazionale. Al Théâtre des Célestins di Lione – in città uno dei più influenti dal punto di vista della produzione culturale – si è recentemente conclusa la messa in scena di due testi beckettiani: Aspettando Godot e Primo amore (in cartellone dall’1 al 18 ottobre 2015). Tra il pubblico c’è stata sì una certa commozione accompagnata però da svariate polemiche. «Spettacoli scadenti» ha bisbigliato qualcuno.
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Ma come, Beckett non piace più? Alla biglietteria del teatro non sono stati rari i commenti di certi spettatori under 40 in risposta alle proposte in cartellone: «Samuel Beckett? E chi sarebbe?» o «Aspettando Godot? Mai sentito!».
2.«Peggio tutta» Beckett: vivere (e scrivere) rende infelici
Nell’ottica dell’infelicità beckettiana vale forse la pena spendere due parole per un testo poco conosciuto dai lettori italiani. Un testo che certamente non entrerà nelle classifiche del buonumore. Einaudi ha pubblicato nel 2008 Peggio tutta – Worstward Ho nel titolo originale – terzo racconto della seconda trilogia beckettiana pubblicata nel 1989 presso gli editori John Calder di Londra e Grove Press di New York all’interno della raccolta Nohow on (In nessun modo ancora nella versione Einaudi).
Worstward Ho è, per definizione dello stesso Beckett, «intraducibile in una lingua latina» a causa dell’allegoria della nave nascosta all’interno delle parole. La presenza della locuzione interiettiva fa riferimento all’ordine dato dal capitano alla sala macchine: si deve dare energia ai motori fornendo la massima potenza consentita per la nave. A vele spiegate si deve correre in avanti: dritti verso il peggio – Cap au pir – hanno tradotto i francesi. Peggio tutta per noi italiani. Ma quale è il peggio contenuto in quest’ultimo racconto di Beckett scritto a pochi mesi dalla morte? Il peggio è la vita. Vivere è peggiore perché è impossibile raccontare il disgusto, la sgretolazione, la perdita di ogni punto di riferimento.
In un luogo buio – fosco – si trovano tre figure. Un bambino tiene la mano a un uomo anziano, camminano lentamente, i loro tratti sono cancellati dall’oscurità. C’è anche l’ombra di una donna: è una vecchia inginocchiata accanto ad una lapide. Il linguaggio è rarefatto, sconvolto. Beckett, che ha sempre ricercato una lingua per raccontare l’indicibile – L’innommable (Éditions de Minuit, 1953) – è forse arrivato, con il termine della sua vita, a trovarne una. È appunto nella lingua creola della seconda trilogia (che per altro comprende altre due prose: Compagnia e Mal visto mal detto) che si può forse dare nome al vuoto, all’impossibile. Per Gabriele Frasca si assiste qui alla fusione di due codici: non è un francese inglesizzato (french) né un inglese francesizzato (anglais) quanto piuttosto un immaginifico franglais (français+anglais) che dà vigore, spazza le simmetrie, innesca il nuovo. La lingua, direbbe Jacques Lacan, altro non è che un «parassita parolaio» che ci anima, che si innesta nel corpo degli uomini. Fornisce sì un codice comunicativo ma poi ci possiede contro la nostra stessa volontà. L’indicibile beckettiano si espleta nell’uso della frase nominale: tagliente, aspra. Il punto a fine periodo si fa metronomo: rompe il fiato, obbliga alla pausa.
Un cranio – più comunemente la morte – assiste alla scena. L’Io è ammazzato: non esiste più. Si è passati all’uso di una terza persona volutamente impersonale che, proprio grazie al sua mancanza, alla sottrazione in levare tipica di Beckett, permette al contrario una personalizzazione: dà consistenza alla vicenda. È attraverso quell’on non traducibile in italiano che si racconta e si trova il linguaggio dell’impossibile: si dà fiato alla storia.
C’è molto buio ci dice Beckett, un buio che non lascia scampo ma che forse, con qualche sforzo, può diradarsi. Se il fosco ha una fine, il vuoto invece resta: è imperituro. Tutto può morire: gli esseri viventi, i luoghi – la vicenda si svolge appunto in uno spazio imprecisato, quasi in-esistente – ma il vuoto non muore, a meno che, sottolinea Beckett, il tutto non scompaia. Solo con la distruzione e l’assenza di mondo, forse, regnerà la quiete.
In questo non-universo popolato da non-uomini cosa resta? Oltre al buio permane l’angoscia del si sarebbe: «Un tempo si sarebbe tentato in che modo. Tentato di vedere. Tentato di dire». Ora non è più epoca. Non c’è respiro nel mondo di Peggio tutta, non esiste futuro né redenzione. L’uomo ha fallito. Non c’è orizzonte poiché anche andando avanti – dritti verso il peggio – la storia si ripeterà concentrica e impazzita: «Tenti sempre. Fallisci sempre. Non importa. Tenta di nuovo. Fallisci di nuovo. Fallisci meglio».
Anche le parole, dunque, si sono svuotate di senso. Un canchero (il lettore? Un ascoltatore esterno?) emerge dal buio. Siamo noi? Non è dato sapere. L’uomo – quel che ne resta – si piega alla logica del mondo impazzito. Le parole che «quasi vere a volte risuonano», sono ormai «manchevoli inezie». Non è forse questo il linguaggio politico dell’oggi, la lingua dei falsi rapporti, del potere e del successo? Gli uomini, svuotati dunque di ogni speranza attendono «in perpetuo ginocchioni». Piegati contro le tombe, deprivati di corpo, senza più parola, si curvano al volere della storia, al potere dei potenti: arrancano sul vuoto. La verità è un vano ricordo: la realtà non è più nemmeno detta, è sdetta, mal vista, offuscata dal fosco, senza soluzione.
Se per taluni la letteratura è dunque fonte di soddisfazioni e gioie private per il Beckett anziano tutto è ormai morto, incenerito. Recita la sua ultima poesia dal titolo emblematico Qual è la parola: «smania di/ qual è la parola/ vedere/ intravedere/ smania di volervi credere d’intravedere quale/ qual è la parola». La letteratura non serve più: «le parole andate via» peggiorano, dritte verso il buio si strozzano nel «foschissimo fosco».
Il resto è silenzio.
Ilaria Moretti
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