«È arrivata mia figlia» è un film sul ritorno verso la madre
Il titolo originale di È arrivata mia figlia è Que horas ela volta? che tradotto in italiano significa A che ora ritorna?
Il concetto del ritorno a casa o, più propriamente, del ritorno verso la madre, è il tema centrale dell’ultimo film di Anna Muylaert, regista brasiliana con all’attivo già quattro pellicole. Quella di È arrivata mia figlia è stata una gestazione lunga: più di vent’anni di appunti, idee, cambiamenti, finché a sei mesi dall’inizio delle riprese la regista, che è anche sceneggiatrice del film, ha trovato la chiave di volta per permettere alla storia di realizzare il suo obiettivo di partenza: raccontare le contraddizioni, i cambiamenti e la realtà del Brasile di oggi.
Protagonista della pellicola è Val (una strepitosa Regina Casé premiata al Sundance Film Festival), una domestica che vive e lavora presso una facoltosa famiglia di San Paolo. Come tante donne della sua generazione, incarna una categoria ancor ben presente nella società brasiliana, quella cioè delle Tate, che per concedere una vita migliore ai propri figli sono state costrette ad abbandonarli per occuparsi di quelli altrui. Val è felice nella sua quotidianità fatta di obblighi, comportamenti remissivi e piccole soddisfazioni. Ha cresciuto Fabinho (Michel Joelsas) come fosse figlio suo, ha una stanza tutta per sé con la televisione, un ventilatore per difendersi dal caldo soffocante e una collezione di libri sul benessere fisico e mentale.
Sorride spesso Val, e pare essere l’unica a portare il buonumore in una famiglia che possiede sì la ricchezza economica ma che ha dimenticato – o forse non ha mai del tutto conosciuto – il calore di certi rapporti, la complicità delle relazioni. La madre del ragazzo, Barbara (Karine Teles), è una donna d’affari, concentrata più sulla cura del proprio aspetto unito alla sua immagine pubblica che sul mantenimento di una buona armonia famigliare. Il padre Carlos (Lourenço Mutarelli) è un ex artista, ma ha smesso di dipingere «quando ha deciso che avrebbe smesso di fumare». È lui il facoltoso della famiglia, ma è di poche parole, dorme separato dalla compagna – i due non sono sposati – e nel suo atelier accanto al giardino ci va di nascosto, per fumare qualche sigaretta e osservare vecchi quadri, finiti ormai nel dimenticatoio.
I contrasti generazionali
La tranquillità quotidianità viene sconvolta dall’arrivo di Jessica (Camila Márdila), la figlia di Val. La ragazza non vede sua madre da più di dieci anni: è stata cresciuta dal padre in una regione povera del centro Brasile, il Nordeste. Ma per lei è ora arrivato il momento di cambiare vita: il suo obiettivo è la grande città, San Paolo, dove forse potrà realizzare il sogno di iscriversi alla Facoltà di Architettura, a patto di riuscire nel difficile esame d’ammissione. Non avendo altro luogo che la sua piccola stanza da domestica, Val convince i datori di lavoro a ospitare la ragazza, «giusto il tempo di trovare un altro alloggio» dove trasferirsi insieme.
Il film si regge sui contrasti. Da un lato vi è la differenza generazionale: Val e la coppia Carlos-Barbara, sebbene di due ceti sociali opposti, sono affini per mentalità. Val conosce bene i propri limiti, sa quali sono i gesti, i pensieri concessi a donne della sua condizione sociale, accetta senza ribellione il suo status senza porsi domande: «è così che deve essere». Condivide appieno la mentalità dei padroni di casa, sa che c’è una differenza di ruoli, la piscina è vietata, il frigorifero ha sezioni ben distinte, il gelato con cioccolato e noccioline è per i padroni, quello nella vaschetta bianca senza etichetta è destinato alla servitù. Accetta la sua condizione senza dolore, perché in fondo è consapevole che esistono «esseri umani di serie B». Jessica non è d’accordo. Non si sente superiore a nessuno, ma senza dubbio è consapevole di «non essere inferiore».
La figlia Jessica rompe le barriere
Il suo arrivo è accompagnato da una ventata di novità: è senza malizia che fa il bagno in piscina con Fabinho, che fuma erba con lui, che pranza con il padre Carlos, accetta una tela in regalo o si fa accompagnare in automobile in direzione della futura Facoltà di Architettura. Jessica legge, sogna di diventare una progettista, perché è soltanto grazie a una solida professione che potrà dare una svolta alla sua vita. Nell’immagine dei grandi grattacieli a specchio che disegnano lo skyline di San Paolo vi è l’idea di un progresso costruito grazie alla conoscenza, alla scuola, alla lettura dei libri per cui si trova sempre del tempo – «mi piace leggere, trovo sempre il tempo di farlo» – nonostante le lunghe ore passate al tavolino per la preparazione del concorso, appesantite dal caldo soffocante di fine estate.
Come per Roland Barthes, l’amore e la costruzione del proprio io passano dai libri, dai pesanti quadernoni di appunti che si fanno incarnazione del desiderio, della spinta propulsiva verso il nuovo. Jessica sa che non avrà altri mezzi per farsi strada nel mondo: conosce le sue umili origini, non le rinnega, ma è spinta da una fierezza che la porta a non provare mai vergogna: azzarda richieste che spesso, a Val, paiono insensate, eppure per lei sono delle semplici formalità.
È soltanto osando, spingendo di qualche passo le barriere che la generazione precedente ha fissato con grande cura, che la ragazza otterrà quello che per la madre, fino a poco tempo prima, pareva impossibile: dormire nella stanza degli ospiti rifiutando lo squallido materasso che Barbara ha preparato per lei; attingere liberamente dal contenitore di gelato al cioccolato; discutere lungamente (seducendo inconsapevolmente il taciturno Carlos) e più semplicemente riuscire in ciò che per la ragazza conta davvero: l’esame alla Facoltà di Architettura.
Anna Muylaert avrebbe voluto intitolare il film La porta della cucina, proprio per sottolineare – come nelle planimetrie studiate da Jessica – gli spazi definiti, le contraddizioni tra le due generazioni, i due ceti sociali, le due anime del Brasile. Nella scena finale di È arrivata mia figlia, Val e Jessica si fanno un caffè: dalla finestra si intravede il quartiere povero di San Paolo, la baraccopoli, l’aridità che batte sulle facciate scrostate, l’arsura che consuma le vite della gente. Una contraddizione che pare non esaurirsi, ma che diviene poetica e propulsiva se animata dalle nuove generazioni capaci di credere al domani con un misto di intelligenza, sfacciataggine e buonumore.
di Ilaria Moretti
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