Un impasto di eros e atmosfere sospese, di ribellione e sottomissione. Il cinema erotico cinese è una lente puntata sui meccanismi del potere, un efficace mezzo d’indagine della sua meccanica invisibile. Da Ju Dou a Lanterne Rosse di Zhang Yimou (1990; 1991) dall’omosessualità in bilico tra amore e morte di Addio mia concubina (Chen Kaige, 1993) alle sfumature sensuali di Wong Kar-wai; ogni declinazione del genere appare, nei suoi rivoli di motivi, un referto spietato della società cinese, solcata da contraddizioni che svelano, in controluce, il difficile rapporto con i corpi e la libertà sessuale.
«Ciò che più impressiona l’Occidente del cinema cinese è il suo realismo contemporaneo» afferma il critico francese Régis Bergeron, e in effetti è un lavoro di “traduzione” quello compiuto da registi che affrontano il tema dell’eros dalla prospettiva del quotidiano, tra matrimoni infelici e rapporti sbilanciati, incistati, quasi fosse impossibile – persino sconveniente – deviare dall’alveo della funzione referenziale.
Un’ipotesi di smarginatura può rintracciarsi, forse, in Lanterne rosse di Zhang Yimou (1991), il cui teatro della scena è al tempo riconoscibile e indefinito, un perimetro lindo e fuori dal tempo.
Cina, alba del XX secolo: nelle asettiche stanze di un palazzo nobiliare si compie il destino della giovane Songlian (Gong Li). È qui che Zhang Yimou costruisce la sua storia. Ed è un racconto crudele, impietoso, teso allo svelamento di pratiche arcaiche, il cui carattere esemplare imprime un “marchio” di riflessione. Non che Lanterne rosse si incardini in un filone civile, così altro dal cinema orientale da rischiare una deformazione. Siamo piuttosto nel campo del potere, della diffrazione dei suoi mezzi, ed è un’indagine rigorosa quella condotta da Zhang Yimou, tutta giocata sul piano estetico e sul filo delle corrispondenze, in cui è la dialettica luci-ombre a definire l’azione. Ma andiamo con ordine.
L’incipit “personale” – centrato sulla protagonista – mostra già l’impalcatura filmica: all’este…