Tra Cuneo e Asti, le Langhe: terre per sempre legate al nome di Cesare Pavese. Da Alba a Santo Stefano, dove è ambientato La luna e i falò, un itinerario alla scoperta di questa porzione di Piemonte sulle orme del grande scrittore.
Qualsiasi tipo di radice necessita di un terreno da abbracciare, per nascere, per nutrirsi e per crescere. Da quella terra dipenderà il futuro della pianta: cosa ne sarà di lei è scritto nel luogo in cui essa affonda le sue fondamenta. Il luogo in cui un uomo nasce e trascorre gli anni dell’infanzia gioca una parte fondamentale nella costruzione del suo carattere e delle sue aspirazioni: il luogo dell’infanzia è sempre, per ciascuno di noi, casa, qualsiasi sia l’immagine che questa parola assume nella nostra mente. È fondamentale prendere coscienza del fatto che ogni luogo in cui siamo vissuti o in cui abbiamo fatto esperienza collabora a formare la nostra coscienza e viene proiettato nella memoria con una sua geografia, costituita sia dai posti che abbiamo fisicamente visto ed esplorato, sia da quelli che abbiamo solo ammirato e su cui abbiamo fantasticato. Per questo l’ambiente è un fattore di intrinseco valore culturale: noi siamo in un luogo e siamo il luogo.
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Buona parte della poetica di Cesare Pavese si sostanzia di questo pensiero. Egli aveva una profonda sensibilità geografica; i suoi romanzi e le sue poesie potrebbero essere definite come un inno alla sua terra natale quale fonte di ricordi dell’infanzia e scenario in cui la realtà sfuma in quell’atmosfera mitica che la penna di Pavese invoca quando canta il passato e disegna i luoghi delle colline e del mondo rurale, in un forte contrasto con la realtà presente. Protagonista indiscusso di tutti i testi di Pavese, infatti, è il territorio delle Langhe (o Langa, in dialetto locale) piemontesi, regione collinare tra la provincia di Cuneo ed Asti, caratterizzata dalla viticoltura a terrazze.
Chiunque abbia letto Pavese ha dentro di sé l’immagine di questa porzione di terra piemontese quale territorio quasi fiabesco: un mondo perso in un passato mitico-contadino, caratterizzato da colli, vigne, boschi, alberi da frutto e sentieri tortuosi. In effetti, quando si arriva nelle langhe, tutto questo prende forma e, a seconda della stagione, lo sguardo si perde nelle distese dalle diverse tonalità di verde o si riempie dei mille colori dell’autunno, rimanendo entusiasta e pieno di meraviglia. Nelle Langhe il tempo pare essersi fermato; qui è ancora possibile, nei piccoli borghi lontano dai centri principali, pensare ad una vita che proceda a ritmo delle stagioni in piena armonia con la terra e ciò che essa ha da offrire. Tra cascine e torrenti il visitatore torna al passato, a quell’infanzia d’umanità che fu il saper coltivare.
Forse è proprio per questa potenza suggestiva, oltre che per l’immenso patrimonio enogastronomico, che le Langhe sono state riconosciute come Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco. Dall’uva qui coltivata stilla il Barolo, il Moscato d’Asti e il Barbera. Nei boschi presso Alba si può scovare il pregiato Tartufo bianco di Alba, a cui nella cittadina è dedicata una fiera annuale, allestita nel Cortile della Maddalena e famosa in tutta Italia, ma non solo. Durante la fiera è possibile per i visitatori lanciarsi in un gioco di contrattazioni basato sull’olfatto e sul tatto, cercando di portare a casa pregiatissimi tartufi. Il comune più alto del territorio, Roccaverano (circa 800 m. s. l. m.) produce, nei pascoli, la gustosa ed omonima Robiola, prodotto DOP. Infine simbolo delle Langhe (oltre al già citato vino) è la Nocciola Tonda e Gentile, ingrediente del giandujotto.
Tra bellezza naturalistica e ritorno alla campagna, le Langhe sono anche territorio di rilevanza per quanto riguarda la storia contemporanea, essendo state uno dei teatri della guerra di Resistenza (’43-’45). Un altro grande scrittore locale, Beppe Fenoglio, ricorda la sua città d’origine, Alba quale sede della prima repubblica partigiana indipendente, dalla brevissima vita (10 ottobre – 2 novembre 1943):
Alba la presero in duemila il 10 ottobre e la persero in duecento il 2 novembre dell’anno 1944
(B. Fenoglio, I ventitrè giorni della città di Alba)
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Alba è il comune più importante, dal punto di vista storico, economico e culturale, del territorio delle Langhe. In epoca medioevale veniva chiamata la città dalle cento torri; purtroppo oggi di quelle torri, simbolo del potere dei signori locali, ne rimangono soltanto una decina. Essa fu municipium romano, ma raggiunse il suo splendore durante il Medioevo, quando venne dotata di imponenti mura difensive e crebbe fino a contare sei castelli, che formavano una corona difensiva sulle colline circostanti. Ma il periodo storico di cui fu protagonista è indubbiamente quello della seconda guerra mondiale: ottenne la medaglia d’oro al valore militare per l’intensa attività partigiana e fu la città del maresciallo Carlo Ravera, il quale, durante l’occupazione nazifascista della città, invece di rispondere agli ordini, nascose e aiutò nella fuga numerosissimi ebrei (assieme alla moglie) e per questo nel 1975 fu insignito dell’onorificenza di “Giusto tra le nazioni”.
La città è da visitare perdendosi nel centro storico, che ancora mantiene le architetture medioevali, e soprattutto lasciandosi guidare dall’intenso profumo del tartufo, prodotto tipico e fortuna commerciale ed economica del paese.
Alba si può considerare “la porta d’accesso” al territorio delle Langhe, essa, infatti, è comunque una cittadina moderna. Per ritrovare lo stupore ed il sogno del paesaggio pavesiano è necessario lasciarsela poi alle spalle, e dirigersi verso il cuore delle colline verso est, ovvero verso il torrente Belbo. Lungo la valle del Belbo si incontra il paese natale di Cesare Pavese, Santo Stefano Belbo, il protagonista del capolavoro dello scrittore La luna e i falò.
Santo Stefano, all’imbocco della vallata del Belbo, è un poco la metropoli delle Langhe.
(C. Pavese, Ciau Masino)
Il paese si trova a fondovalle, dove le estreme propaggini delle Langhe confinano con le prime colline del Monferrato. La Santo Stefano di oggi è in parte diversa da quella narrata da Pavese. Il paese non è più quelle quattro baracche di cui parlò lo scrittore, esso è in forte espansione ed in parte ha perso il fascino da cascina di campagna, rovinato dalla speculazione edilizia, spesso aggressiva e spregiudicata nel momento in cui i paesotti di campagna decidono di voler abbandonare l’idillio bucolico in nome di un qualche ideale di sviluppo industriale. Così iniziano a crescere dimentichi della bellezza paesaggistica.
Tuttavia, Luna e Falò alla mano, se si decide di percorrere un itinerario tra i luoghi pavesiani, si ritroveranno quegli scorci che hanno mantenuto intatta la loro genuina essenza. Arrivati al paese la prima cosa che si nota è lo stradone provinciale per Canelli, lungo il quale Santo Stefano si snoda e lungo il quale si muovono e viaggiano i personaggi di Pavese, Anguilla per prima. La strada provinciale è la via che dal borgo arriva al paese principale e quindi il luogo degli incontri, delle notizie, dei racconti, che giungono alle orecchie del giovane protagonista e lo inducono a sogni ad occhi aperti sul mondo oltre il Belbo.
Il mio paese sono quattro baracche e un gran fango, ma lo attraversa lo stradone principale dove giocavo da bambino.
C. Pavese, Racconti, vol. II, La Langa
Lungo lo stradone si trova la casa natale di Pavese, oggi priva dell’originario giardino e trasformata in Museo. Essa si distingue dalle tipiche ville contadine, mostrando la differenza ed il gusto borghese della famiglia che la abitava. La casa fu venduta dalla famiglia di Pavese dopo la prematura scomparsa del padre. Questo segnò probabilmente il giovane Cesare come momento quasi rituale di fine dell’infanzia, dal momento che, persa la casa, egli perse la possibilità di passare l’estate immergendosi in quel luogo che fu la sua fanciullezza. Egli, come Anguilla, se ne andò dal paese. Ma poi vi tornò, anche lui nel tentativo di recuperare quell’innocenza tipica dell’infanzia, così come della campagna.
Uscendo dal centro del paese si possono distinguere le due colline speculari del Salto e della Gaminella. Esse sono separate dal torrente e dalla valle delimitata da fila di pioppi. Nulla pare sconosciuto, tutto rimanda all’immaginario del libro. Si pensa ad Anguilla e al giovane e zoppo Cinto che passeggiano lungo il Belbo. Solo un particolare manca: la passerella che metteva in comunicazione le due sponde, e quindi le due colline, oggi non c’è più.
…la collina del Salto, oltre il Belbo, con le creste, coi grandi prati che sparivano sulle cime. E giù in basso anche questa era tutta vigne spoglie, tagliata da rive, e le macchie degli alberi, i sentieri, le cascine sparse erano come li avevo veduti giorno per giorno, anno per anno, seduto sul trave dietro il casotto o sulla spalletta del ponte.
(C. Pavese, La luna e i falò)
La collina del Salto, aspra e seccata dal sole, ospita la casa-laboratorio di Nuto (oggi museo), o meglio la casa di Pinolo Scaglione, colui che ispirò il co-protagonista del romanzo, simbolo della maturità e della disillusione. Visitando la casa si scopre che Nuto fu una persona reale, il figlio di un falegname che Pavese conobbe davvero a Santo Stefano e gli rimase amico per tutta la vita.
Certe volte scappavo sullo stradone fino alla casa del Salto, nella bottega del padre di Nuto. Qui c’erano già tutti quei trucioli e quei gerani che ci sono ancora adesso. Qui, chiunque passasse, andando a Canelli o tornando, si fermava a dir la sua, e il falegname maneggiava le pialle, maneggiava lo scalpello o la sega, e parlava con tutti, di Canelli, dei tempi di una volta, di politica, della musica e dei matti, del mondo.
(C. Pavere, La luna e i falò)
Proseguendo lungo la strada comincia una salita tortuosa ed erta lungo il sentiero del Salto che porta a Canelli. Ancora una volta ci si immerge in un passato remoto e nebuloso, quando la strada era solcata da carrozze che portavano fanciulle e musicanti a Canelli, alla festa del paese, la sera. Percorrendo la strada si arriva alla Palazzina del Nido, rossa ed elegante, quasi sulla cima della collina. La casa è rimasta conservata com’era proprio per la sua posizione impervia.
La collina della Gaminella è invece un luogo indefinito e inesplorato, la collina sulla cui cima «prima o poi bisogna andare», ma sempre poi, perché arrivarci significa concludere una sorta di iniziazione. È la collina più grande del territorio che si estende in lunghezza fino a Canelli. È caratterizzata da una geografia fitta e varia, che intreccia ordinati angoli coltivati a viti e alberi da frutto a zone boschive e incolte. Per la sua mole e l’aspetto ancora selvaggio essa è sicuramente il punto più suggestivo dell’itinerario.
Mentre parlava, io mi vedevo Gaminella in faccia, che a quell’altezza sembrava più grossa ancora, una collina come un pianeta, e di qui si distinguevano pianori, albereti, stradine che non avevo mai visto. Un giorno, pensai, bisogna che saliamo lassù. Anche questo fa parte del mondo.
(C. Pavese, La luna e i falò)
Ai piedi della collina, annunciata ancora oggi da maestosi pini, si trova la Mora, madre di tutte le cascine. La Mora è il simbolo della spensieratezza dell’età giovanile e del lavoro agreste. La villa si è conservata quasi intatta, con il suggestivo cortile in acciottolato dove lo sguardo del visitatore posiziona il tripudio di fiori che colpì gli occhi di Anguilla la prima volta che vi entrò.
L’itinerario a Santo Stefano non può non concludersi con la salita attraverso i vigneti sul colle del Moncucco. In cima si trova il Santuario della Madonna della Neve e si gode della vista del territorio delle Langhe. Soltanto arrivati in cima e lasciato riempirsi lo sguardo della visione delle colline si arriva a comprendere fino in fondo quale fu il sentimento di Pavese nei confronti di questa terra. Dalla cima, nelle sere in cui il cielo è sgombro da nubi e pulito, si scorge i lume intermittente sorretto dalla Vittoria Alata di Torino.
Mio cugino ha parlato stasera. Mi ha chiesto
(C. Pavese, I mari del sud, Lavorare Stanca)
se salivo con lui: dalla vetta si scorge
nelle notti serene il riflesso del faro
lontano, di Torino. “Tu che abiti a Torino…”
mi ha detto “…ma hai ragione. La vita va vissuta
lontano dal paese: si profitta e si gode
e poi, quando si torna, come me a quarant’anni,
si trova tutto nuovo. Le Langhe non si perdono”.
Tutto questo mi ha detto e non parla italiano,
ma adopera lento il dialetto, che, come le pietre
di questo stesso colle, è scabro tanto
che vent’anni di idiomi e di oceani diversi
non gliel’hanno scalfito. E cammina per l’erta
con lo sguardo raccolto che ho visto, bambino,
usare ai contadini un poco stanchi
Da questa collina ogni 4 agosto parte il segnale per l’accensione dei falò, rito che è rimasto da allora.
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Santo Stefano è cambiata. È rimasta la stazione che porta a Canelli, la porta per il mondo, ma non viene più utilizzata. L’albergo dell’Angelo non esiste più. Non esiste più la piazza gremita di gente e il sentimento popolare che la riempiva. Questo rimpianto era già presente in Pavese-Anguilla una volta tornato, quando cercò di recuperare l’entusiasmo e il folklore dell’infanzia, ma aveva trovato il paese cambiato dalla guerra. Ma il cambiamento è anche nell’uomo che se ne va dal paese e poi torna cercandovi un mito che non esiste. Anguilla torna carico di favole ma, dopo essere stato iniziato al mondo, comprende che la favola bucolica è negli occhi dell’uomo che ha vissuto la città e ne è rimasto deluso. Nei campi, nella gente che è sempre vissuta nei campi, non c’è la consapevolezza di quanta ricchezza, dignità e bellezza si nasconde nel lavoro della terra; c’è solo povertà e voglia di andarsene.
Il fatto che Santo Stefano e con esso tutti i borghi rurali stiano morendo è indicativo della direzione che si sta imponendo nella società. Se il mestiere del contadino è ancora, nell’immaginario e nella realtà dei fatti, svalutato e considerato umiliante, i paesi continueranno a trasformarsi in agglomerati di case e dormitori, perdendo tutta la loro ricchezza. Anche il paese è cultura, è tradizione.
Passeggiando per le Langhe rimane nella sensibilità del viaggiatore attento un rimpianto per tutto ciò che sta venendo dimenticato dalla nevrotica corsa del mondo. E tutti coloro che hanno vissuto un paese rurale si sentiranno presi da nostalgia per quel piccolo mondo antico che esso raffigura. E tutti coloro che da quel paese se ne sono andati verso la città e ne hanno subito tanto il fascino quanto l’orrore, forse oggi, nella malattia del progresso che cresce e consuma, sapranno che per curarla è necessario tornare.
Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti.
(C. Pavese, La luna e i falò)
In copertina: Illustrazione di Lucia Amaddeo
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«Viaggio in Italia» è la rubrica mensile di Frammenti Rivista, accompagnata dalle illustrazioni di Lucia Amaddeo, che racconta il Bel Paese attraverso le lenti della cultura. Perché non dobbiamo mai dimenticarci di quanto è bella, e forte, l’Italia.
Articolo originariamente pubblicato su FR il 13 giugno 2016
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[…] Fonte: FrammentiRivista del 21 ottobre 2020 […]