L’ultimo giorno della Fiera delle parole, l’11 ottobre, è iniziato con La ferocia (Einaudi) di Nicola Lagioia. Il titolo del libro (Premio Strega 2015) sembra beffarsi del cognome dell’autore, quasi un bisticcio di parole calcolato. E in effetti, com’è poi stato spiegato dallo scrittore stesso, l’antifrasi tra i due termini ha senza dubbio una certa espressività; però sull’impatto fonosimbolico prevale l’esigenza di definire il tono del libro, di chiarirne fin da subito l’atmosfera onnipresente. Il romanzo è ambientato negli anni Ottanta, a Bari (uno scrittore meridionale parla della propria città-ossessione, come James Joyce con la sua Irlanda paralizzante). Muovendosi tra distese di uliveti e di asfalto rovente, tra lamiere, vitigni, onde del mare, rifiuti e palazzi addossati alla sabbia, la famiglia Salvemini costruisce il suo regno di cemento. Un cemento allegorico, che azzera paesaggio e identità, lasciando vivere appena qualche essere umano.
A fianco di Lagioia si è seduto Alessandro Cinquegrani, docente di letterature comparate all’Università di Venezia e autore di Cacciatori di frodo (Miraggi Edizioni, 2012). L’osservazione di apertura ha riguardato subito la struttura concettuale de La ferocia, definendone due piani. Il primo, di carattere narrativo, vede il romanzo tramato su di un filo noir, che tende dunque all’intrattenimento del lettore; il secondo, più verticale, riflette l’impostazione civile del libro, dal momento che rappresenta la vita sinistra di una grande famiglia di palazzinari. I due livelli di lettura sono inscindibili. Ma quale delle due esigenze è stata prioritaria? Quella civile o quella narrativa? In realtà nessuna, poiché lo scrittore (non solo Lagioia, s’intende) non si pone schemi gerarchici prima di iniziare la stesura. E così è stato toccato il primo grande tema dell’incontro, quello cioè del processo creativo.
«Per me la scrittura è un atto conoscitivo, e per questo la genesi di un romanzo è lenta». Per spiegarsi meglio, l’autore barese ha ricorso a un’immagine, catalizzando l’attenzione del pubblico. «Mi immagino come un pescatore in mezzo a un lago, con la sua barchetta, armato di pazienza. Se voglio catturare un pesce enorme, diciamo il mostro di Loch Ness, devo avere braccia straordinarie, devo essere sempre vigile e devo resistere al momento della cattura. Ecco, per me questo è trovare l’idea giusta». Solo poi, una volta emersa l’ispirazione dalle nebbie della propria mente, inizia il lavoro di cesellatura di ogni singola pagina, plasmando così una certa architettura, seppure non rigida (se ci chiamassimo Raymond Carver scriveremmo cattedrale). A romanzo terminato, entrano in contatto i diversi piani su cui è stato costruito: ed è qui che si riconosce la bellezza de La ferocia, in questo campo di relazioni sempre aperto. Vediamo di chiarire quest’aspetto.
Se non ci soffermiamo solo sulla sua suspense, la tensione prettamente narrativa del noir cela un’istanza civile. Lo ha dichiarato anche Nicola Lagioia: «Ho usato il noir più come mezzo che come fine. C’è una differenza sostanziale fra giallo e noir. Nel giallo il male è esterno alla società, viene da fuori; nel noir il male presuppone una società marcia». A rafforzare il concetto ha poi ricordato l’epigrafe de Le mani sulla città, di Francesco Rosi: «I personaggi e i fatti qui narrati sono immaginari, è autentica invece la realtà sociale e ambientale che li produce». Lo scrittore classe ’73, dunque, rivendica l’importanza delle finzione; ma non ne ignora l’origine socio-morale.
L’altro livello di lettura, come abbiamo scritto, è di carattere civile. Su questo argomento, Lagioia ha subito messo le mani avanti: «Sento tanto parlare di letteratura civile. Specie a noi scrittori del Sud viene richiesta la risoluzione di problemi, magari un libro che sconfigga la mafia, la disoccupazione, la speculazione edilizia… Ora, io non credo che la letteratura serva per risolvere problemi nell’hic et nunc. La sua maggiore ambizione sta nel far riconoscere gli esseri umani». Più volte durante la presentazione del libro l’autore ha spezzato una lancia in favore dei “cattivi”. Perché li capisce. Quando Albert Camus scrive di Mersault (si tratta del libro Lo straniero), Camus stesso è un assassino, Camus conosce il suo lato omicida. Ecco perché Lagioia dice di «dare voce alla sua ossessione riposta». Lo scrittore osserva i personaggi peggiori, si riconosce in quelle maschere oscure. Dunque la ferocia è il gradiente emotivo del romanzo. È a partire da questa che si irradiano le azioni dei personaggi, morsi da istinti primordiali, affamati.
Al termine della mattinata, lo scrittore – lontano dalla sua Bari dal ’97 – ha risposto alla domanda di Cinquegrani «com’è la situazione della letteratura italiana?». Abituati come siamo a vandalizzare i nostri spazi, si penserebbe ad un «problematica, ma…» più o meno desolato. Al contrario, con pragmatica lucidità, Lagioia ha ricordato la lezione di Italo Calvino: «La situazione è migliore di quanto venga descritta. In Italia, cinema e letteratura stanno conoscendo anni felici, non ci manca l’immaginario artistico. Del resto, come possiamo essere poveri d’immaginazione in un paese ambiguo come il nostro, in un paese che potrebbe benissimo essere rappresentato come un quadro di Hyeronimus Bosch con il sottofondo di un jingle pubblicitario? Dobbiamo lavorare dal basso, con spirito d’iniziativa. Nel mondo della piccola editoria, lì. Ricordate “Le città invisibili” di Calvino? “Cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”». La donna che appare nella prima pagina de La ferocia, nuda e insanguinata, sembra un’apparizione infernale, ma dà spazio a 400 pagine che ci purificano dall’«inferno che abitiamo», semplicemente raccontandocelo.
Andrea Piasentini