Nella giornata di giovedì Mario Draghi, governatore della Banca centrale europea, ha deciso di non manomettere il costo del denaro, lasciando invariati sia il tasso relativo alle operazioni di rifinanziamento principale – a zero – sia il tasso sui depositi – 0.4%. I mercati, dal canto loro, avevano fatto, nei giorni precedenti, diverse ipotesi che prevedevano una espansione del programma di acquisto dei titoli o una ulteriore riduzione dei tassi per migliorare l’economia europea. Il Banchiere centrale italiano, per il momento, ha deciso di non muoversi ma non sono poche le impressioni che fanno intendere un possibile allungamento del Quantitative easing da comunicare nella riunione di dicembre.
Ci troviamo in una situazione inesplorata, in un mondo al contrario, dove le banche applicano un tasso negativo ai depositanti – una tassa che questi ultimi devono pagare per tenere i soldi in banca. È un tentativo, quello della Bce, di stimolare la circolazione di denaro e l’economia europea tra i soggetti e attivare un meccanismo di spesa favorito proprio dal basso costo del denaro. In buona sostanza, la Bce intendeva porre rimedio al problema della situazione – ancora vigente – di stagnazione economica e deflazione riducendo i tassi di interesse con il programma di Quantitative easing, incentivando gli attori economici a spingere sull’acceleratore dei consumi e degli investimenti per dare respiro all’economia. In realtà, come spesso in dottrina è stato dimostrato, non è solo la componente del tasso di interesse a stimolare gli investimenti.
La teoria neoclassica alla base dell’economia europea, infatti, riteneva che la variabile da cui dipendevano gli investimenti fosse proprio il tasso di interesse reale. Nel momento in cui questo si riduceva, gli investimenti, automaticamente, avrebbero fatto un balzo all’insù. Knut Wicksell, economista svedese, riteneva che una riduzione del tasso di interesse di mercato al di sotto di quello naturale – che era il tasso che decretava una situazione di equilibrio tra risparmi e investimenti – avrebbe portato a fenomeni di surriscaldamento dell’economia, cioè di inflazione, mettendo a repentaglio l’equilibrio tra risparmi e investimenti rappresentato dalla legge di Say.
Più avanti, John Maynard Keynes, nel ritenere manifestamente infondata la legge di Say, ammonì il mondo neoclassico, sulle quali dottrine si basa l’economia europea, facendo notare che la grandezza che muove gli investimenti è rappresentata principalmente dai cosiddetti animal spirits, cioè da quella componente istintiva che guida le decisioni dei soggetti in campo economico. Da qui, Keynes riteneva che non sarebbe bastato l’intervento della Banca centrale, con la riduzione dei tassi, a determinare un balzo degli investimenti – come anche la scuola della sintesi neoclassica rappresentata dal modello IS-LM riteneva – perché si sarebbe arrivati ad un punto, quello chiamato trappola della liquidità, in cui un’ulteriore riduzione dei tassi non avrebbe determinato la ripresa degli investimenti.
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Keynes era solito riferirsi a questa situazione prendendo in prestito l’idea del cavallo che non vuole bere. Pur dando altra acqua – espansione della base monetaria e riduzione dei tassi – al cavallo – Sistema economico -, il cavallo non avrebbe bevuto. Ed era in questi casi, allora, per gli addetti ai lavori di LM orizzontale, che sarebbe dovuto intervenire lo Stato con coraggiosi programmi di investimento pubblico che, con i proverbiali effetti di moltiplicazione, avrebbe determinato la crescita del reddito e dell’occupazione.
Allo stato delle cose ci troviamo in una situazione in cui l’economia europea , pur inondata dal fiume di liquidità che proviene dalla Banca centrale, non riesce a fare il balzo in avanti. Le ragioni di questa situazione, lungi dall’addentrarsi in tematiche tecniche e specifiche, sono rinvenibili in diverse cause: riduzione del prezzo del petrolio, eccesso di risparmio, crisi demografiche e – come avrebbe detto Draghi – presenza di «forze che cospirano contro l’inflazione».
Il riferimento è, probabilmente, alla Germania che, ormai dal 2003, ha messo in atto, attraverso la riforma Hartz, un programma di svalutazione salariale per guadagnare competitività sui mercati internazionali. Una tecnica altamente disfunzionale e, alla lunga, distruttiva che è la prima fonte di squilibri macroeconomici all’interno dell’eurozona. Il dato, ormai noto nel dibattito, è stato confermato nei giorni passati dall’ormai gigantesco surplus di bilancia commerciale della Germania (310 miliardi).
Davanti alle astruse ipotesi che si avvicendano da tempo, dal Quantitative easing per il popolo sostenuto dal laburista Jeremy Corbyn, al recupero del concetto di Milton Friedman di Helicopter money – idealmente, il lancio di denaro dall’elicottero che farebbe aumentare l’inflazione – la realtà dei fatti sembra incontrovertibile: la politica monetaria è inefficace, occorre aumentare la spesa pubblica. Per gli addetti ai lavori occorre spostare la curva IS verso destra. Ecco quindi che, ormai da più parti, emerge con vigore la necessità di implementare un mix di politiche fiscali e monetarie volte a dare slancio all’ormai depressa eurozona che prova a uscire dalle fangose acque della stagnazione con risibili segnali di ripresa dell’inflazione e della crescita.
Con buona pace di coloro i quali credono che un’espansione della quantità di moneta comporti una identica crescita dell’inflazione – i resilienti adoratori della Teoria quantitativa della Moneta – e che l’espansione della spesa pubblica porti alla crescita indiscriminata del settore statale. In una congiuntura come questa – di bassa inflazione, alta disoccupazione e stagnazione dei redditi – non ci sono rischi che lo spettro dell’inflazione faccia sfumare il potere di acquisto della moneta. Occorre solo uscire dal recinto di pregiudizi e convinzioni ormai ampiamente sconfessate dalla realtà e correggere il tiro dell’economia europea e recuperare precetti di politica economiche che non sono una rivalsa contro una linea teorica errata e priva di strumenti di risoluzione, ma operazioni di buon senso utili ad una causa comune.
Davide Cassese