Il 2 novembre appena passato sono trascorsi quarant’anni dall’omicidio di Pier Paolo Pasolini. Nella sua orazione funebre, Alberto Moravia – che esordì ricordando la sacralità del poeta dal «realismo arcaico» – pianse la scomparsa di «un’attenzione patriottica che pochi hanno avuto». E sono molti i luoghi d’Italia che omaggiano il loro intellettuale patriota, prime fra tutti le amate Bologna e Roma, poi Milano e Venezia. Ma anche la musica, quest’arte insieme universale e priva di un unico linguaggio, ha sentito la necessità di rievocare il poeta friulano nella sua attualità eterna – l’attualità di un classico.
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Dal momento che Pasolini è stato l’unico letterato italiano del Novecento a far breccia nell’immaginario popolare (con tutti i rischi annessi), quali generi se non il pop, appunto, e l’indie lo hanno potuto sentire vicino? E no, stavolta non valgono le equazioni pop=commerciale, indie=snob adolescenziale. Perché la prima tappa della nostra breve digressione sull’eredità pasoliniana nella musica è Fabrizio De André. Possibile pensare Faber come cantante pop? Sul piano meramente musicale è così. Si lascino da parte la poetica e la composizione dei testi: ebbene, tolto il contenuto, chi ha cantato Una storia sbagliata se non un grande cantante pop? Questo genere musicale – che solamente in Italia ha una sfumatura negativa, quasi dispregiativa – ha permesso al cantautore genovese di riportare il nome di Pasolini in una composizione artistica, a cinque anni dalla sua scomparsa. Nel 1980, la Rai commissionò a De André la sigla per due documentari. Uno su Wilma Montesi, ragazza misteriosamente uccisa nel ’53; l’altro su Pier Paolo Pasolini, la cui morte, disse Faber
a noi che scrivevamo canzoni, come credo d’altra parte a tutti coloro che si sentivano in qualche misura legati al mondo della letteratura e dello spettacolo, ci aveva resi quasi come orfani.
Accompagnata da quella di Massimo Bubola, al tempo suo collaboratore ne L’Indiano (1981), la voce inconfondibile di De André ridipinge la tragica notte del 2 novembre 1955, senza cercare una retorica sorprendente o sonorità ricercate. Il suo italiano asciutto, genovese e accurato, riempie uno fra i più tradizionali giri armonici (Do – Fa – Sol, ecco la formula). Una storia sbagliata omaggia un corpo sbattuto sulle prime pagine, violentato tanto da giudizi imprecisi e affrettati, quanto da mitizzazioni fini a se stesse.
Cominciò con la luna sul posto/ e finì con un fiume d’inchiostro,/ è una storia un poco scontata,/ è una storia sbagliata
La seconda tappa, dopo l’amico fragile di Genova, è un salto di trent’anni. Nel frattempo, il pop italiano si è infranto; Lucio Dalla, Fabrizio De André, Lucio Battisti e colleghi hanno ceduto dagli anni Novanta il posto all’indie (dall’inglese indipendent, il termine comprende generalmente tutti quegli artisti svincolati dalle grande etichette discografiche e dal pubblico massmediatico).
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Ora, questo articolo non è un focus sulla situazione odierna della musica indipendente italiana, quindi è bene rinviare delle riflessioni a riguardo e fermarsi a un dato di fatto: i Tre Allegri Ragazzi Morti (TARM per i fan) hanno costruito nota su nota, soprattutto in passato, l’identità dell’indie nostrano, alternativo e di alta qualità. È sin dal 1994 che i TARM battono i plettri sulle proprie chitarre per ispirare la rinascita della musica italiana: sul come e sul se ci stiano riuscendo, rinviamo la questione. Quello che ora ci interessa è lo spettacolo teatrale Pasolini, l’incontro, progetto realizzato a marzo 2011 dal fumetto Intervista a Pasolini dello stesso cantante Davide Toffolo. La voce del poeta vibra e prende forma tra i temi delle canzoni, scomposte e ricostruite come tappeto sonoro delle registrazioni e dei disegni di Toffolo: in questo modo, l’incontro con Pasolini restituisce uno spessore diverso alle parole, che ne escono così attualizzate.
È chiaro, c’è il rischio di mistificare la poetica pasoliniana – spesso ridotta a una contestazione giornalistica, come fosse una poetica da reportage – ma l’obiettivo della band friuliana non è filtrarne le riflessioni attraverso un preciso metodo di giudizio. Così come in De André, l’intento, semmai, è propriamente artistico: rievocare la forza suggestiva dei messaggi lanciati da Pier Paolo Pasolini negli ultimi anni della sua vita.
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Su questa stessa scia si inserisce, poi, il reading di Pier Paolo Capovilla: nel 2013, il leader de Il Teatro degli orrori ha portato La religione del mio tempo sul palcoscenico, leggendo le poesie (essenziale la riscoperta del Pasolini poeta, senza cui è impossibile comprendere la tensione saggistica) tratte dall’omonima raccolta del 1961, dedicata all’amica Elsa Morante. Al contrario dello spettacolo dei Tre Allegri Ragazzi Morti, in quello di Capovilla la musica è decisamente più scarna. In effetti, cambiano l’oggetto e il metodo della rappresentazione: La religione del mio tempo ripropone i versi poetici di Pasolini, e lo fa con un reading teatrale. Di conseguenza, la musica è relegata a minor spazio, al pianoforte di Kola Laca e alla chitarra di Paki Zennaro, che accentuano il ritmo scandito da Capovilla.
Infine, dopo Fabrizio De André, i Tre Allegri Ragazzi Morti e Pier Paolo Capovilla si esce (di poco) dal selciato della musica, toccando un brano della colonna sonora del film Caro Diario (1993) di Nanni Moretti. Il titolo esplica chiaramente la natura della pellicola, autobiografica e intimistica, attraverso la quale il regista romano si confessa in una serie di monologhi. Alla fine del primo episodio In Vespa, Moretti conclude il suo giro (apparentemente) spensierato per i quartieri di Roma andando all’idroscalo di Ostia. Qui, il tono morettianamente comico cambia, si affila e si fa più pesante, e così pure la musica. Ecco la sapienza del regista, che intreccia musica, immagini e parole, mostrando il luogo dell’uccisione del poeta sulle note del Köln concert di Keith Jarrett, il mago francese del pianoforte jazz. Rimangono solo la musica, il paesaggio e il ricordo di Pasolini, e nulla più.
Andrea Piasentini
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