La separazione del sacro
Si è soliti pensare al sacro come ad un ambito altro, separato dalla mondanità; infatti la parola stessa suggerisce una divisione rispetto al secolo, alla vita terrena segnata dal susseguirsi degli anni. Il sacro sembra delinearsi in contrapposizione a ciò che è profano, come uno spazio recintato e inviolabile in virtù del proprio carattere.
L’immaginario evoca la sacralità come inviolabilità, come se qualche tipo di contatto potesse intaccare la stessa natura sacra, di qui la necessità di preservare il sacro, mantenendolo in uno spazio e in un tempo apposito.
Così la religione preserva la propria sacralità innalzando templi, chiese e altari, stabilendo giorni e cerimonie apposite per manifestare la devozione e la riverenza necessaria per rapportarsi al sacro.
Allontanarsi da sé stessi
Per potere entrare in contatto con il sacro, l’uomo ha stabilito rituali precisi, tentando in vari modi di purificarsi della propria mondanità per relazionarsi a un ambito distaccato, appunto sacro.
Ribaltando la prospettiva, la cura e conservazione del sacro, può apparire come una costrizione per ciò che ne è escluso, un relegare ciò che è terreno e umano, abbassandolo e comprimendolo al grado zero dell’esistenza.
L’impurità viene percepita scabrosa e deleteria, il pericolo della contaminazione abbandona la materia a una degradazione, innalzando la spiritualità come pratica di allontanamento e abbandono della consuetudine.
La sacralità umana
È sufficiente ricordare il punto di avvio della separazione tra sacro e profano ricollocandolo nel debito ambito umano: il sacro nasce come sacralizzazione a partire dall’uomo, che per primo percepisce una distanza rispetto a un altro, un altrove che fatica a comprendere.
L’umanità rende sacro, dimenticandosi poi di sé stessa, lacerandosi nel distacco forzato con sé stessa, imputando la propria carne, rendendo torbide le proprie azione più naturali, invertendo l’ordine della natura per preservare un altrove sacro.
La materia così costretta e degradata ribolle nel proprio sangue affermandosi con brutalità e nefandezza: la scena del sacro diventa teatro tormentato della mortificazione e la sacralità è la stessa separazione diabolica.
Convocare la promiscuità
Il ricordo della vita terrena si sporca nella promiscuità di benedizione e maledizione; così è il racconto polifonico di Marianna De Leyva, La Monaca di Monza, al Teatro Franco Parenti dal 12 febbraio al 3 marzo.
Il testo di Giovanni Testori è l’occasione per ribattezzare le frustrazioni della carne grazie all’eccezionale adattamento registico di Valter Malosti. La rievocazione della propria sfortunata vicenda autobiografica si trasforma in una confessione atroce di una donna straziata.
Federica Fracassi dà corpo e voce alla ferocità carnale di suor Virginia, ripercorrendo i brandelli di una vita lacerata.
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Il verbo diviene carne
Il ricordo della costretta monacazione è un dialogo serrato, patetico e violento che condensa i propri interlocutori nello spazio conchiuso e separato che spetta loro. La rievocazione del passato non si sfuma nel tempo, ma acquista impeto crescente.
La brutale lucida consapevolezza di sé convoca la nera presenza dell’amante Gian Paolo Osio (Vincenzo Giordano) e della conversa a conoscenza della tresca amorosa (Giulia Mazzarino), per una triangolazione ambigua ed esasperata.
La veemenza è il fil rouge che invortica parole e azioni, in una tensione ascendente che cerca di colmare la lacerazione cui la carne è destinata.
Natura contro natura
La separazione tra sacro e profano si ribalta nell’opposizione interamente umana tra natura e il suo opposto. Le passioni vengono raccontate acquistando veracità grazia all’intensa interpretazione dei protagonisti. Gli attori concentrano le proprie energie al punto tale da restituire al pubblico l’inquietudine autentica della vicenda.
Nonostante le tre voci parlino dall’oltretomba, riescono ad affermarsi verbalmente con potenza e immediatezza, evidenziando il reciproco distacco. Il pathos acceso e perentorio trasforma la rievocazione del passato rendendo la confessione un’invocazione disperata alle passioni della vita, alla voluttà umana e alla propria sconcertante affermazione.
Il primato del dissacrante sconvolge l’ordine morale, nel primeggiare della carne, come emblema di un’umanità sacralizzata a discapito di sé stessa, protesa all’autodistruzione, esemplificata come monito dalla magistrale messa in scena teatrale.