Caratteristica che al lettore-forte non sfugge, è il modo in cui i titoli dei romanzi, negli anni, continuano a ripetersi o a rigirarsi a modo loro. Se cercassimo «Paradiso perduto», per esempio, troveremmo che ben due autori – che poco hanno in comune – hanno firmato un romanzo con questo titolo: John Milton e Henry Miller.
Nel primo caso si tratta di un poema biblico sulla caduta dell’uomo, Dio condanna Satana e caccia Adamo ed Eva dal Paradiso Terrestre. Nel secondo romanzo (autobiografico) il Paradiso è un’elevazione: Conrad Monricand è in difficoltà e così Miller convince la moglie a ospitarlo «fino alla fine dei suoi giorni» a casa loro in California, nel paradiso perduto di Big Sur. Procedendo per assonanza, invece, la ricerca porterebbe a Troppi paradisi di Walter Siti. In questo caso, il protagonista è ossessionato: dal paradiso personale, che gli manca, e dai troppi paradisi collettivi con cui l’Occidente consuma se stesso.
La domanda che accomuna queste tre opere è: cosa ci aspettiamo da un paradiso?
Paradiso perduto di John Milton è suddiviso in dodici libri. Si tratta di un testo non di facile lettura poiché l’autore sceglie di seguire le orme di Omero e Virgilio e dei loro capolavori. Così come gli antichi si volgevano alla Musa invocando il suo sostegno, il poeta inglese chiede il supporto dello Spirito Santo. John Milton introduce il Blank verse, rifiuta l’idea della rima e sceglie un sistema giambico (il metro principale delle opere di William Shakespeare). Esso è formato da un insieme di dieci sillabe e da cinque piedi giambici, ciascuno composto da una sequenza sillaba atona e sillaba accentata.
Il poema racconta la storia biblica della disobbedienza di Adamo ed Eva, tentati da Satana – che ha assunto le forme di un serpente – ne…