Narrare la Shoah è una questione molto dibattuta in letteratura. Elie Wiesel, ad esempio, sosteneva che fosse impossibile trasformare l’esperienza della Shoah in finzione letteraria. D’altro canto, secondo Jorge Semprùn, scrittore spagnolo deportato a Buchenwald per motivi politici, esperienza che narra in La scrittura o la vita, la finzione letteraria è necessaria per testimoniare, almeno in parte, un evento indicibile come quello dell’Olocausto. Infine, ne I sommersi e i salvati Primo Levi afferma che una vera testimonianza integrale è impossibile, poiché ogni testimonianza non è altro che una «testimonianza per delega» da parte di chi è sopravvissuto, mostrando consapevolezza di come la testimonianza sia sempre frutto di mediazione e di ricostruzione.
Nella letteratura tedesca è presente un caso letterario molto interessante riguardo una testimonianza della Shoah. I protagonisti sono: da un lato Wolfgang Koeppen (1906-1996), scrittore tedesco insignito nel 1962 del prestigioso Büchner-Preis e noto per la sua Trilogia del fallimento (in tedesco Trilogie des Scheiterns), trilogia di romanzi sul secondo dopoguerra tedesco, in particolare il periodo in cui Konrad Adenauer governava come cancelliere, formata da Tauben im Gras (1951), Das Treibhaus (1953) e Der Tod in Rom (1954, quest’ultimo, a differenza dei primi due, ancora inediti in Italia, è stato pubblicato da Zandonai nel 2008 con titolo La morte a Roma); dall’altro il commerciante di francobolli ebreo tedesco Jakob Littner (1883-1950).
La vicenda editoriale di La tana di fango
L’opera in questione è scritta dal primo: La tana di fango. Memorie di un sopravvissuto, pubblicato in Italia da Giuntina nel 2002 con traduzione a cura di Paola Buscaglione Candela (titolo originale: Jakob Littners Aufzeichnungen aus einem Erdloch)
La vicenda editoriale attorno a La tana di fango di Wolfgang Koeppen: finzionalizzare la Shoah è molto interessante. Viene prima pubblicata nel 1948 e nel 1985 a nome di Jakob Littner con titolo Aufzeichnungen aus einem Erdloch per piccole case editrici di Monaco e Berlino, rispettivamente per Kluger e Kupfergraben Verlag. L’opera sarà ripubblicata nel 1992 presso Jüdischer Verlag, casa editrice berlinese facente capo alla celebre Suhrkamp Verlag di Francoforte, con il titolo Jakob Littners Aufzeichnungen aus einem Erdloch, attribuita questa volta al suo vero autore, vale a dire Wolfgang Koeppen, che nel frattempo ne ha rivendicato la paternità, già adombrata durante varie interviste, tra cui quella del 1985 a cura del celebre critico letterario Marcel Reich-Ranicki, grandissimo estimatore dello scrittore. Ciò ha suscitato un acceso dibattito letterario sulla possibilità di rendere finzione una testimonianza sull’Olocausto, ma anche numerose critiche sul fatto che a rielaborarla sia stato un tedesco, membro di quel popolo responsabile delle barbarie perpetrate contro il popolo ebraico.
Il tutto si fa più interessante quando in America Kurt Nathan Grübler, nipote di Jakob Littner, dà il manoscritto originale della testimonianza di quest’ultimo al germanista americano Reinhard Zachau, il quale ne pubblica un estratto sulla rivista Colloquia Germanica nel 1999. A ciò seguiranno nel 2000 una traduzione inglese del testo a cura di Kurt Nathan Grübler con titolo Journey through the Night e nel 2002 una prima edizione tedesca con titolo Mein Weg durch die Nacht (entrambi i titoli si possono tradurre come Il mio viaggio attraverso la notte. La testimonianza è inedita in Italia).
La tana di fango: plagio o rielaborazione?
Questo, dunque, risulta essere il testo originale da cui Wolfgang Koeppen è partito per realizzare la La tana di fango. Come Koeppen sia entrato in possesso della storia di Jakob Littner, lo racconta in questo passo della sua prefazione all’opera, quando ricorda l’incontro di Littner con il primo editore, ovvero Herbert Kluger di Monaco:
Da questo nuovo editore arrivò un uomo che veniva da un inferno tedesco. […] L’ebreo raccontò al nuovo editore che il suo Dio gli aveva tenuto la mano sul capo. L’editore ascoltò, annotando luoghi e particolari. Lo scampato cercava uno scrittore. L’editore mi raccontò l’incredibile. Io quell’incredibile me l’ero figurato. L’editore mi chiese: “Vuoi scriverlo?” L’uomo che tanto aveva sofferto volle andar via, emigrò in America. Mi promise un compenso, due pacchi al mese da laggiù. Così mangiai scatolette americane e scrissi la storia dolorosa di un ebreo tedesco. Che diventò la mia storia.
Nonostante la questione del ghostwriter risulti poco credibile dopo la pubblicazione di Mein Weg durch die Nacht, c’è da dire che non si può comunque parlare di un plagio vero e proprio, dato che Jakob Littner, come racconta l’autore, sembrava d’accordo nel far rielaborare la sua testimonianza in La tana di fango. Wolfgang Koeppen, inoltre, nello scrivere La tana di fango, ha mantenuto i fatti raccontati da Littner, apportando alcune modifiche al fine di finzionalizzare la testimonianza, e la storia è attribuita fin dall’inizio al commerciante ebreo tedesco. La tana di fango si tratta, dunque, di un’opera di finzione tratta e liberamente ispirata a una testimonianza con valore documentale, che ha, dunque, finalità totalmente diverse: se da un lato il testo di Littner vuole documentare una realtà oggettiva, come testimonia il sottotitolo (Ein Dokument des Rassenhasses. In italiano traducibile come Un documento dell’odio razziale), quello di Koeppen vuole documentare quanto profondamente l’esperienza della Shoah abbia cambiato il suo protagonista. Un’esperienza talmente forte al punto che l’autore di La tana di fango l’ha sentita propria, come testimonia l’espressione «Io quell’incredibile me l’ero figurato».
Vuole essere, pertanto, una semplice opera di finzione letteraria, e non un documento storico. Un’opera che vuole dimostrare come sia possibile finzionalizzare una testimonianza dell’Olocausto, e dunque usare i mezzi della letteratura, per meglio spiegare l’assurdità e l’orrore che si è vissuto di quella che nel romanzo si definisce «danza macabra di questo tempo».
La trama del romanzo: «un’odissea dell’orrore»
La storia di Jakob Littner si svolge dal 1938, con gli Accordi di Monaco e la Notte dei cristalli del 9 novembre, al 1945, verso la fine della Seconda Guerra Mondiale. Il commerciante di francobolli ebreo tedesco, all’epoca dei fatti residente a Monaco, si ritroverà a dover fuggire dalla Germania per sfuggire alle persecuzioni naziste, arrivando fino a Zbaraz, nell’attuale Ucraina. Nel ghetto di Zbaraz, «una città morta» nelle cui case «dalle finestre vuote e dalle porte aperte occhieggia l’orrore», cerca di sfuggire ai tedeschi nascondendosi assieme a molti rifugiati ebrei, tra cui Janina Korngold, colei che diventerà la sua seconda moglie. Tra i tanti nascondigli, l’ultimo sarà la cantina della villa di un signore del posto, dove resterà lì per mesi fino all’arrivo dei russi.
In quel periodo, Jakob Littner vivrà quella che Wolfgang Koeppen definisce «un’odissea dell’orrore», assistendo all’uccisione di molti ebrei, come i coniugi Hindes, la signorina H. e il bambino di 5 anni, Jakob Oehl, i signori Kornberg e Mietek, il figlio di Janina, ascoltando storie delle «azioni» (rastrellamenti) del ghetto di Zbaraz e venendo a sapere, attraverso delle lettere, della morte dei suoi cari, tra cui suo figlio Zoltan nel ghetto di Varsavia e le sue sorelle Sida e Irma nel pogrom di Borszczow. Quello che vivrà, inoltre, è anche un periodo in cui ciò che conta è la sopravvivenza, anche a costo di sacrificare i propri valori, come dimostrano la presenza del Consiglio Ebraico di Pinkus Grünfeld, che consegna ai nazisti gli ebrei «da avviare al macello, come una volta si faceva in guerra con gli animali» pensando di «salvare sé e i propri familiari tradendo i suoi compagni», gli estranei che denunciano la presenza di Littner e di altre persone nel loro primo rifugio nel ghetto, portandoli a scappare nel bosco in cerca di un altro luogo dove ripararsi come «ombre provenienti da un mondo sotterraneo, ma ancora gravate dall’affanno del corpo», oppure il fornaio L. e il proprietario della casa padronale B., che decidono sì di aiutare Jakob Littner e gli altri rifugiati, ma dietro compenso.
L’influenza dell’Esistenzialismo: l’assurdità e la disumanizzazione della Shoah
Wolfgang Koeppen ha rielaborato la testimonianza di Jakob Littner conferendogli la forma di un diario. Ciò è suggerito in primo luogo dal titolo tedesco Aufzeichnungen aus einem Erdloch: il termine tedesco Aufzeichnungen vuol dire «annotazioni». La struttura di La tana di fango, infatti, è composta da paragrafi più o meno brevi scritti in prima persona, con una prosa asciutta, segno sia dell’immediatezza che della drammaticità di ciò che si sta vivendo. Inoltre, la scrittura in prima persona suggerisce un’introspezione psicologica del personaggio di Jakob Littner, mostrando come questa esperienza della Shoah lo cambia interiormente, senza nessun intento edificante e documentaristico come nell’originale testo del vero Littner.
Bisogna anche considerare che il titolo tedesco contiene un richiamo intertestuale a Memorie del sottosuolo di Fëdor Dostoevskij, mostrando l’influenza che l’Esistenzialismo esercita su Wolfgang Koeppen. Quello che vuole mostrare l’autore, infatti, è come Jakob Littner sia capitato in una realtà a lui estranea, incomprensibile, che cerca di comprendere fino in fondo e di cui è vittima inconsapevole. Già all’inizio del romanzo, quando riceve la visita del commissario, il protagonista parla di «un turbine» che «mi trascinò fuori nello spazio non protetto, forse nella vita vera» e che fino al quel momento tutto «era stato solo un’illusione». Arrivato al commissariato per via della sua cittadinanza polacca, afferma che «in base a un numero si decideva ora della mia esistenza, da me avvertita forse come piccola e insignificante, ma comunque unica», mentre all’inizio del suo viaggio dalla Germania, dove è stato espulso dopo gli avvenimenti della Notte dei cristalli in quanto ebreo, parla di «viaggio nell’ignoto, nell’avventura». Il futuro per Littner appare, dunque, una «terra incognita».
Ciò che viene rappresentata è una realtà dove «l’uomo non vale nulla, il timbro è tutto» e «chi costudisce i documenti e amministra i timbri, è un dio che dispone di mille destini». Queste immagini della burocrazia riportate nel romanzo devono molto a Franz Kafka, di cui ritorna anche l’immagine dei «grandi, sinistri insetti corazzati» usata per descrivere i membri della Gestapo. La burocrazia qui descritta, dunque, è raffigurata come impersonale, ma allo stesso tempo disumanizzante. Essa è, infatti, alla base dello sterminio di milioni di innocenti, come dimostra questo passo sul campo di sterminio di Belzec, dove le persone sono usate come oggetti da privare della propria umanità secondo moderni metodi industriali:
Ora sappiamo che a Belzec c’è un grande complesso per l’eliminazione degli ebrei. Ha l’aspetto di una fabbrica e lavora secondo moderni metodi industriali. Le persone prelevate dal nostro distretto vanno a finire lì. Costituiscono la materia prima per questa fabbrica che utilizza abiti e corpi di questi infelici e la parte inutilizzabile, l’anima, ahimè, l’anima, la invia al cielo sotto forma di fumo.»
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Il mistero della fede in Dio come motivo di salvezza
È proprio nell’assurdo e nell’ignoto che vive che Jakob Littner, presentato all’inizio del romanzo come un ebreo non praticante, dunque assimilato, troverà la fede in Dio. Scrive Alessandro Costazza, professore ordinario di Letteratura tedesca presso l’Università degli Studi di Milano, nel suo saggio Ladri d’identità. Dalla falsa testimonianza alla testimonianza come finzione nella letteratura tedesca sulla Shoah, edito nel 2019 da Mimesis:
[…] nel ghetto di Zbaraz il protagonista non troverà né la strada per la fede ebraica né tantomeno quella per l’ebraismo orientale. Egli ritrova invece la fede in Dio, ma solo nel momento della massima distanza da Dio, attraverso una sorta di credo quia absurdum, che rappresenta in fin dei conti soprattutto uno strumento di sopravvivenza.
Tanto più la situazione che vive Jakob Littner si rivela assurda e difficile, quanto più la fede in Dio costituisce per lui un modo per sopravvivere e «conservare anche nella miseria la dignità umana». Ciò in cui non credeva all’inizio del romanzo diventerà per lui una certezza, una speranza di uscire dalla sofferenza che vive nel ghetto. La fede in Dio, però, è costellata anche da dubbi, come il seguente, quando Littner, costretto a letto per via di una polmonite nel suo rifugio in una capanna, si interroga sul suo destino e su quello dei suoi compagni, oltre a quello dei tanti abitanti del ghetto morti durante i vari rastrellamenti:
Vestito e nutrito in modo inadeguato, alla fine sono crollato e ora giaccio nella nostra capanna in preda a una grave polmonite. Non faccio che almanaccare, e più del timore per quanto accadrà, mi tormenta la questione della colpa, della nostra colpa e di quella altrui. Mi interrogo sull’origine della colpa. Perché ci è toccato questo crudele destino? I miei pensieri ritornano continuamente a Dio. Vorrei ribellarmi alla sua volontà, e tuttavia confido in Lui. Stranamente, nella mia miserabile condizione, credo che mi salverà.
Una fede per lui strana, incomprensibile: un mistero, come la definirà rispondendo alle domande del Professor Halpern. È una fede, però, necessaria, che lo porta a riporre in essa ogni speranza di salvezza e a non cedere al male, come dimostra il fatto che Jakob Littner, nel momento in cui trova dei topi nella capanna, invece che scacciarli, li accoglie, dandogli pure un nome, al punto da affermare che «poiché i nemici hanno tentato tante volte di togliermi la vita, ho appreso a rispettarla, anche nelle creature infime».
Questa ritrovata fede in Dio giungerà il suo apice nel momento in cui Jakob Littner trascorrerà mesi nella cantina della villa di B., definita più tardi come «tana di talpe»:
«Da dove viene la mia fiducia in Dio? In questa caverna priva di luce io vedo chiaramente una cosa: Dio ci salverà. […] In questo momento lo so, ne sono sicuro. E anche se potrò dimenticare questo momento, e se lo potrò sconfessare, se, la bocca piena di terra, potrò gridare che Dio non esiste, questo attimo di riconoscimento della Sua esistenza mi darà la forza, nonostante ogni oscurità, di rimanere saldo nel profondo dell’animo e di sopravvivere all’inferno.»
Jakob Littner, dunque, si rende conto che a questo «viaggio attraverso la notte» seguirà un momento in cui vedrà una via d’uscita, in cui vedrà la luce. Una volta avvenuta la liberazione per mano dell’esercito russo, infatti, Littner motiverà la sua sopravvivenza a quello che definisce inferno a «un miracolo» che «può fare solo Dio», mostrando come Dio sia stato per lui motivo di consolazione e speranza in un bene superiore ma incomprensibile. A dimostrazione di ciò è il fatto che a salvarlo sia stato uno come B., il quale non solo ha preteso un compenso, ma che «dev’essere stato un solitario, forse un misantropo, gli unici affetti deve averli riservati ai suoi fiori. È singolare che proprio a lui noi dobbiamo la vita».
Il problema della giustizia
Tornato in libertà e con le cure dell’esercito russo, Jakob Littner si chiede se sia capitato in un paradiso. Anche in questo paradiso, però, l’assurdità di quello che ha vissuto non si ferma. Passeggiando assieme a Janina Korngold nel mercato di Zbaraz, Littner osserva la raccapricciante immagine dell’esecuzione del gendarme delle SS Jetzt, e fa la seguente riflessione:
Ma per gravi che siano stati gli atti di disumanità compiuti da questo sbirro, avrei preferito non vederlo qui pendere dalla forca. Non so come si debba procedere con questi funzionari del delitto, con coloro che con tanta crudeltà e con incredibile reiterazione hanno colpito e ucciso. Non conosco una punizione che possa far rivivere gli assassinati, e far sì che ciò che è accaduto non sia accaduto. Le amarezze sofferte non mi aiutano a trovare la risposta all’antica domanda: cos’è la giustizia in questo mondo? Non vorrei che d’ora in poi si continuasse a uccidere, che venissero innalzate ancora forche, che plotoni d’esecuzione svolgessero il loro sanguinoso lavoro. Dico che si è già ucciso abbastanza. L’uomo ha versato sangue a sufficienza. Caino ha ripetutamente ucciso Abele. Basta sangue, per sempre!
Per Littner sembra impossibile trovare una vera punizione per i carnefici senza incorrere alla loro stessa violenza. Se a prima vista sembra un’assoluzione dei criminali nazisti e di tutto il popolo tedesco, in realtà bisogna considerare che più avanti nel testo Wolfgang Koeppen, sempre attraverso il personaggio di Jakob Littner, non perdona nessuno: giunto a una Monaco in macerie, per lui ormai «una città di fantasmi», Littner rivolge i suoi pensieri direttamente alle donne in fabbrica, ai soldati e agli abitanti delle città bombardate, ovvero a tutti i tedeschi che avrebbero potuto ribellarsi a quello che viene definito il «Führer-Moloch», ma che sono rimasti inerti a guardare, come se non fosse stato possibile contrastare Hitler, definito nel corso del romanzo come «demoniaco». Tuttavia, rigetta ogni forma di odio, anche verso i colpevoli, senza giudicarli, ma neanche perdonarli né assolverli, poiché «odio, follia e accecamento hanno condotto a questa catastrofe», e continuare a odiare significa darla vinta ai nazisti e perpetuare la loro violenza. Inoltre, Littner aggiunge:
I fatti che sono accaduti sfuggono, a mio parere, a ogni giudizio umano. Solo Dio può giudicare le azioni più disumane, solo Lui può giudicare con misericordia là dove ogni misericordia umana apparirebbe presuntuosa.
Gli avvenimenti della Shoah, pertanto, si mostrano incomprensibili all’uomo, e la violenza dei nazisti assurda, oltre lo scibile umano. Sembra anche impossibile trovare una pena giusta per questi crimini: la condanna a morte risulterebbe essere in continuità con l’insensata violenza dei nazisti, mentre altri tipi di pene possono essere sì giuste, ma non riporteranno in vita milioni di vite spezzate. Ancora una volta Jakob Littner ripone ogni speranza in Dio, al quale spetta, dunque, giudicare e condannare chi ha compiuto azioni disumane.
Conclusione: è possibile raccontare una testimonianza della Shoah attraverso la finzione?
Nonostante l’intricata vicenda editoriale e gli accesi dibattiti attorno ad essa, l’opera di Wolfgang Koeppen, La tana di fango. Memorie di un sopravvissuto dimostra, attraverso la rielaborazione narrativa della testimonianza del sopravvissuto Jakob Littner, come sia possibile narrare la Shoah anche attraverso la finzione letteraria. Mostra, inoltre, quanto insensate e assurde siano state la sua violenza e la disumanizzazione di milioni di vite. Una violenza che Primo Levi definì «inutile violenza», ma che allo stesso tempo supera il limite della comprensione umana.
Il messaggio che resta ai lettori è quello di ricordare di restare umani e non cedere alla stessa violenza dei nazisti. In poche parole: non perdonare né assolvere, ma allo stesso tempo non odiare. Dall’altro lato, non solo la giustizia di Dio è possibile, ma anche una nuova giustizia, quella della letteratura, che attraverso la forza delle parole può vendicare le vittime dell’Olocausto condannando fortemente i carnefici.
Immagine di copertina: Memoriale dell’Olocausto di Berlino. Foto: Grey blocks of concrete, Photo by Andrea Nardi on Unsplash
Fonti:
Costazza, Alessandro, Ladri d’identità. Dalla falsa testimonianza alla testimonianza come finzione nella letteratura tedesca sulla Shoah. Mimemis Edizioni, Milano, 2019
Koeppen, Wolfgang, Jakob Littners Aufzeichnungen aus einem Erdloch. Jüdischer Verlag im Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1992
Koeppen, Wolfgang, La tana di fango. Memorie di un sopravvissuto. Traduzione a cura di Paola Buscaglione Candela. Editrice La Giuntina, Firenze, 2002
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