Facciamo un passo indietro. Quale è stato il percorso professionale ed umano che ti ha portato ad essere così vicina ai Queen e a Brian May in particolare?
Sono sempre stata un’appassionata di musica, specialmente inglese, sebbene conoscessi i Queen da molto tempo, ascoltavo di tutto. Non mi sono mai definita una loro “fan sfegatata”, apprezzavo la loro musica, l’incredibile voce di Freddie ma, in particolare, ero molto colpita da Brian, il chitarrista ricciolone e un po’ filosofo, o almeno questa era l’idea che mi ero fatta di lui fin da ragazzina… Il mio percorso di avvicinamento deriva principalmente dal mio spirito di voler aiutare le persone e impegnarmi in battaglie in difesa dei più deboli. Come formazione, ho frequentato il liceo linguistico e poi l’università in Inghilterra, questo mi ha portata ad avere un’ottima conoscenza e padronanza della lingua ma, a parte questo, sono sempre stata in prima linea in iniziative di volontariato. A partire da Amnesty International o l’Anti-Apartheid Movement durante il mio periodo di vita inglese (in quegli anni Nelson Mandela era ancora imprigionato in Sud Africa, e il movimento studentesco britannico era molto attivo in questa lotta contro l’apartheid), fino ad essere coinvolta, appena tornata in Italia, in associazioni di diverso tipo. Come ho accennato, l’avvicinamento ai Queen è scaturito dalla beneficenza. Subito dopo la morte di Freddie Mercury, nel novembre del 1991, ho sentito il bisogno di fare qualcosa per la lotta contro l’Aids in Italia. Mentre pensavo questo, una sera vidi in tv l’intervento di Stefano Marcoaldi, giornalista e presidente dell’ASA (Associazione Solidarietà AIDS) di Milano e fui talmente colpita dalle sue parole che contattai l’associazione immediatamente. Praticamente, il giorno dopo ero già in ASA, determinata a voler aiutare a veicolare il messaggio della pericolosità dell’AIDS, anche e specialmente, presso i giovani. Così, armata di buona volontà, tante speranze e molta cocciutaggine (contro il parere di chi, specie all’inizio, non credeva nelle mie intenzioni né in quelle di mia madre che mi spalleggiò buttandosi a capofitto anche lei in questa battaglia), cercai di sfruttare al meglio ciò che sapevo di poter fare e mi dedicai al volontariato organizzando, fra l’altro, presso il Teatro Smeraldo di Milano, per tre anni consecutivi, uno spettacolo multimediale intitolato The Show Must Go On – Omaggio a Freddie Mercury. Essendo uno spettacolo di beneficienza, mi venne spontaneo contattare il management dei Queen, sia per spiegare di cosa si trattasse, sia per ottenere il permesso di utilizzare il loro nome per questa iniziativa per la lotta contro l’Aids. Questo fu l’inizio di una lunga e duratura collaborazione. Il manager dei Queen, Jim Beach, venne di persona a Milano per l’edizione del 1993, vide cosa avevo creato, praticamente dal nulla, e fu così che conquistai la sua fiducia e, di conseguenza, quella della band. Il rapporto di reciproca stima e fiducia è continuato negli anni e praticamente loro sapevano, e sanno, di poter contare su un punto di riferimento in Italia disposto ad aiutare e collaborare in diverse occasioni, sia direttamente, come per la traduzione italiana e adattamento del musical We Will Rock You, prodotto da Barley Arts, o per l’organizzazione di serate o eventi particolari riguardanti la band o iniziative di beneficienza collegate al Mercury Phoenix Trust, l’associazione mondiale per la lotta contro l’Aids costituita dopo la morte di Freddie dallo stesso Jim Beach, da Brian May, da Roger Taylor e da Mary Austin (per anni compagna e amica fidata al fianco di Freddie), sia per iniziative più personali.
So che sei restia a raccontare aneddoti riguardanti Brian May, ma cosa ci puoi raccontare di lui, della sua vita al di là della musica, del palco e della notorietà? Qual è il vero collante della vostra amicizia?
Brian May, come amo definirlo, è una entità multidimensionale. Brian May “è”. Punto. Non sto scherzando, è una persona che non puoi assolutamente catalogare né riassumere in poche righe. Ha una cultura impressionante e una profonda conoscenza e competenza in diversi campi. Ha raggiunto i vertici mondiali con i Queen nella musica, ma contemporaneamente è uno scrittore, uno scienziato, ha un dottorato in astrofisica (ha pubblicato alcuni libri sull’argomento), si occupa di cosmologia, di stereofotografia (anche in questo caso ha scritto dei libri che sono molto interessanti ma che, per riallacciarci alla prima domanda, non hanno ancora trovato un editore in Italia, affrontando un argomento un po’ di nicchia). È impegnato in prima persona nella salvaguardia della natura, in particolar modo della fauna selvatica, tramite la sua associazione Save Me Trust e le sue battaglie animaliste e a tutela dell’ambiente sono ormai famose, anche in Italia. Posso dire che è una delle persone più “umane” e umili che abbia conosciuto. Solo un piccolo aneddoto di ciò che Brian è. A Milano, durante le audizioni per i chitarristi per il musical We Will Rock You, c’era un ragazzo che non riusciva quasi a suonare per l’emozione e sbagliò quasi tutto l’assolo di Bohemian Rhapsody. Brian si alzò, si avvicinò al ragazzo, lo abbracciò e si scusò. Cercò di rincuorarlo dicendogli che capiva la difficoltà di suonare davanti a lui e per questo gli chiese scusa. Però gli disse anche di calmarsi e, passata l’emozione, di riprovare il prezzo. Non serve dire che la seconda audizione andò molto meglio. Questo è Brian May. Anzi, come ho detto prima, Brian è.
Hai già nominato due volte il musical basato sui brani dei Queen di cui hai curato l’adattamento e per il quale, nel 2009, hai avuto la possibilità di assistere, con Roger Taylor e Brian May, alle selezioni per la versione italiana. Com’è stata questa esperienza?
Umanamente fantastica. Indipendentemente dal fatto di collaborare direttamente con i Queen e lavorare a un loro progetto, per me è stato un viaggio straordinario nel mondo del teatro, una mia vecchia passione, fra l’altro. Già nel 2005, quando il manager dei Queen mi contattò chiedendo se volevo lavorare a una prima stesura di traduzione e adattamento del loro musical, fui lusingata e al tempo stesso felicissima di essere stata scelta per questo progetto. Conoscevo bene questo musical e non vedevo l’ora arrivasse in Italia. Un adattamento prevede un lavoro molto diverso e più impegnativo di una traduzione, in quanto devi entrare nella testa di chi ha scritto il copione originale per capire cosa vuol trasmettere, seguire le sue indicazioni (in questo caso Ben Elton, l’autore del copione, disse chiaramente come dovevano essere le versioni straniere del musical) e trovare il corrispettivo nella lingua e cultura del paese in cui verrà rappresentato. We Will Rock You è pieno di riferimenti a canzoni, personaggi particolari, giochi di parole e modi di dire che sono diversi nelle altre culture e quindi c’è stato bisogno di un gran lavoro. Quando nel 2009 la Barley Arts prese in mano la produzione italiana del musical, capii che finalmente il progetto era andato in porto. Claudio Trotta, patron della Barley Arts, lavorò con il regista Maurizio Colombi (attore e regista noto per la sua specializzazione nel mondo dei musical) per mettere in scena uno spettacolo stratosferico con una band straordinaria e un cast eccezionale che ha calcato i principali palcoscenici italiani fra il 2009 e il 2011. È stata un’importante esperienza di vita che mi ha insegnato molto, sia dal punto professionale sia umano. Certo, non è stato tutto rose e fiori. Come in tutte le situazioni della vita, ci sono stati degli alti e bassi, dei momenti di gioia alternati a momenti di tensione, ma ne è valsa la pena.
Ti faccio una domanda da fan, al di là del rapporto che hai con i componenti della band. Conosci il gruppo dei Queen da sempre, la loro storia, il loro percorso. Come vedi la collaborazione di Adam Lambert nelle apparizioni in trasmissioni tv e nei tour degli ultimi tempi, tenendo conto che sarebbe impossibile per chiunque reggere un qualsiasi confronto con Freddie Mercury?
Come hai detto tu, sostituire Freddie Mercury non è possibile, sia come artista, sia come personaggio iconico che è diventato. E, a dire il vero, nessuno dei rimanenti membri dei Queen ha mai pensato di sostituirlo, quelle che riporta spesso la stampa sono notizie infondate. Certo, né Brian né Roger sono rimasti seduti con le mani in mano, potrebbero benissimo vivere di rendita e ritirarsi a vita privata, ne avrebbero ogni diritto. Tuttavia sono delle persone così passionali, cariche di energia e vitalità, che hanno ancora tanto da dire e da fare, musicalmente parlando e non solo. Quindi trovo più che naturale che abbiano continuato a far musica a nome “Queen” associando il loro ad alcune collaborazioni nel corso degli anni. Ricordiamo ad esempio la collaborazione con Paul Rodgers e i due tour mondiali nel 2005 e 2008 e, più recentemente la collaborazione con Adam Lambert, iniziata quasi in sordina nel 2012 e che li ha portati, negli ultimi due anni, a un lungo tour mondiale che proprio in questi giorni è approdato in Sud America dove, il 18 settembre, hanno suonato davanti alla folla oceanica di Rock In Rio, come accadde proprio 30 anni fa con Freddie Mercury. Brian e Roger hanno giustamente portato avanti il nome dei Queen e il loro percorso come band nel miglior modo possibile e l’hanno fatto senza sostituire Freddie, ma avvalendosi di collaborazioni. Questo può far storcere il naso a qualcuno, ma la maggior parte dei fan ha capito e li supporta ancora, basta vedere i numeri dei sold-out ai loro concerti. Ho avuto l’occasione di vedere Adam Lambert in concerto a Stoccarda lo scorso febbraio, nella fase europea del tour. Ammetto che prima di allora ero un po’ scettica. Sapevo che Adam aveva una gran voce, talento da vendere ed era molto teatrale, ma sinceramente non sapevo quanto potesse rendere bene sul palco con una rock band. E invece, non solo è stato grandioso e ha dissipato ogni dubbio che potessi avere, ma mi ha colpito così positivamente che ritengo al momento sia il frontman adatto per affiancare Brian e Roger nella continuazione della loro avventura Queen. The Show Must Go On, o meglio, God Save the Queen!